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dic 10, 2021 - Notizie    4 Comments

Il Feditore

Quando Dante stava crescendo, la penisola era attraversata da eserciti e da carovane di fede e di mercanzie in una misura mai vista appena un secolo prima dopo il rapido disfacimento di grandi entità politiche capaci di tener freno alle ambizioni di potenze locali spesso poi in lotta anche fra loro a danno delle popolazioni soggette.

In particolare, quando il Sommo Poeta divenne già uomo a 17 anni nel 1282, in Sicilia si stava consumando il dramma dei Vespri Siciliani.

Tale episodio pose fine al dominio degli Angiò aprendo la strada all’ingresso degli aragonesi in una area finora appannaggio di altri invasori stranieri ormai scomparsi, dai bizantini agli arabi ai normanni passando per gli svevi spodestati proprio da coloro che stavano per essere scacciati in seguito ad una rivolta di grandi proporzioni anche per l’epoca.

Una lotta che si sarebbe conclusa anni dopo nel 1302 quando il Nostro aveva attraversato già la metà della vita.

Nel Nord stava assumendo importanza sempre crescente Milano che era stata sottratta agli angioini con l’arcivescovato spregiudicato di Ottone Visconti il fondatore della lunga dinastia che avrebbe governato non solo la città ma vaste terre d’Italia nel corso degli anni.

Negli anni di gioventù del letterato fiorentino, Pisa e Genova si stavano ferocemente combattendo per contendersi il Tirreno fino a quando la città della Torre, ancora non diventata famosa per la sua pendenza, non era stata poi fatta uscire dalle luci della ribalta in seguito al disastro della Meloria nel 1283.

Gli avvenimenti politici occorsi a Pisa verranno poi citati da Dante anni dopo raccontando della tragedia di Ugolino della Gherardesca fatto prigioniero dai ghibellini avversi ai guelfi sostenitori degli ex padroni Angiò dagli anni ’80 in ritirata ormai da più parti dall’Italia.

e Firenze ? la piccola città cinta da mura e da montagne appenniniche era una arena in cui si guardavano con ostilità reciproca famiglie di varia estrazione sociale; antichi aristocratici, cavalieri orgogliosi ma indebitati e spregiudicati quanto arricchiti mercanti. La popolazione cittadina era riuscita a sottoporre a controllo la vecchia nobiltà feudale che perse gradualmente potere sulla città difesa da ben organizzate milizie organizzate intorno a gonfalonieri. I nobili, pur in declino, cercarono di partecipare alla vita politica trasformando le proprie residenze in fortezze. Il governo cittadino veniva esercitato da autorità del podestà e del capitano del popolo che veicolavano l’indole bellicosa dei cavalieri in campagne militari fuori dalle mura però talvolta con esiti disastrosi come la sconfitta subita a Montaperti quando l’autore della Divina Commedia ancora non era nato.

La Toscana perdipiù era oggetto di mire espansionistiche del fiero pontefice Bonifacio VIII quando una serie di circostanze fece sì che Pistoia espulse nella vicina Firenze i litigiosi parenti della famiglia Cancellieri che si divise: per che alcuni congiunti si chiamarono Bianchi, gli altri Neri; e così fu divisa tutta la città come raccontava anni dopo Dino Compagni uno storico della città del Giglio.

Il pontefice osservava attentamente gli avvenimenti nella città dove i Cancellieri si divisero in Neri e Bianchi capitanati dai Donati e dai Cerchi, gli ultimi che presero fra le fila Dante,poco prima sposato con la figlia di Manetto Donati uno dei capi della fazione avversaria.

Dante era discendente di una nobile famiglia di cavalieri con un crociato come antenato ma al tempo decaduta se pur non impoverita. Intraprese la via del letterato nel 1290 quando, per tradizione storiografica, rimase sconvolto per la morte di Beatrice di cui non sappiamo molto ma che era stata per lui molto importante. Dante è molto conosciuto per il suo fondamentale ruolo nella letteratura ma prima di essere un poeta era stato anche un cavaliere, con spada e coraggio nelle mani senza esimersi dal buttarsi nella mischia quando gli imponeva il dovere.

Va ricordato che il giovane entrò nella cerchia dei letterati grazie ad un violento, l’impetuoso Guido Cavalcanti diventato genero del fiero Farinata degli Uberti dai più oggi ricordato da la cintola in sù in una fossa infernale.

Firenze negli anni ’80 stava cercando di ritagliarsi uno spazio in Toscana capeggiando la lega guelfa contro la quale si opponevano solo Pisa ed Arezzo e Dante era entrato in scena fra le fila dell’esercito della lega, all’età di 24 anni. Va detto che la figura del Podestà era strutturata per dare ordine nelle relazioni con la milizia costituita nel suo nerbo dai milites professionisti ed aristocratici di cui Dante era parte come cavaliere feditore. I feditori erano la forza d’urto principale, in un contesto ancora allora dominato dalle cavallerie.

I milites erano temuti ma anche pure ignorati dalle autorità cittadine quando sorgevano questioni legali e patrimoniali nonostante il servizio prestato. Va detto che il milite,in passato, sosteneva a proprie spese uomini d’armi facendosi carico anche del loro equipaggiamento andando spesso incontro a debiti continui. Un aspetto peculiare di questa classe di cavalieri era pure che essi andavano in guerra senza i privilegi riconosciuti nella vita civile ergo portando con se anche servitori ed alloggiando nel decoro dovuto insieme ad amici e conoscenti come se si fosse in un viaggio di piacere.

Uno stile di vita che le autorità cittadine deploravano e ritenevano fonte di disordini per il cronico indebitamento.

I disordini venivano causati infatti dall’organizzandosi in gruppi indipendenti chiamati masnada .

L’estorsione era una pratica comune per attingere fondi per la propria sussistenza e i milites iniziarono anche a creare una rete di contatti con altri mercenari, aiutandosi a vicenda nei confronti delle autorità.

In considerazione della vivacità politica al limite dello scontro armato, le città necessitavano comunque di fornire ordine trasformando alcuni milites in berrovieri che erano vere e proprie guardie del corpo a protezione dei rappresentanti delle istituzioni comunali, sottoposti tuttavia a rigide norme e forme di controllo e sentenze anche capitali in casi di indisciplina gravi. Tuttavia il servizio era sempre a tempo determinato e si ritornava nella masnada cambiando spesso sede in giro per la Penisola. Negli anni intorno alla vicenda di Montaperti, un esempio di vita al servizio di molteplici comuni è fornito ad esempio proprio dai connazionali di Dante quali i ghibellini Scolari acerrimi nemici degli Orsini di Roma verso la fine del Duecento. Quando poi mancavano datori di lavoro i masnadieri si sbandavano e diventavano fuorilegge commettendo rapine ed omicidi ai margini della comunità cittadina però conservando il titolo sociale di miles per il mantenimento del cavallo e delle armi, praticamente cavalieri avventurieri, non semplici briganti.

Da notare che insieme a questi cavalieri in bancarotta, si aggregavano non solo banditi in cerca di bottino ma anche donne che li accompagnavano in abiti maschili, come documentato da archivi giudiziari.

Le città, quando arrivava il momento, chiamava alla raccolta tutte le forze disponibili per mettere su l’exercitus ( di origine bizantina ) per uno scontro risolutore ma il più delle volte si optava per incursioni stagionali ( cavalcata ) nel territorio nemico, anche per prelevare prigionieri per i riscatti, fonte di guadagno per i partecipanti delle spedizioni lampo. Il bottino in seguito alle battaglie poteva anche essere ingente, talvolta anche spettacolare come il bottino conquistato dai vincitori senesi a Montaperti, quanto poteva bastare per sostenere per settimane l’intero esercito da solo. Oltre a denaro,armi e vettovaglie, la preda preferita dei milites erano i boves e jumenta, cioè bestiame di grande valore economico, oggetto spesso di iniziative comunali a tutela degli allevatori e delle mandrie lasciandoci in merito copiosa documentazione.

Firenze aveva a disposizione una forza militare costituita intorno al nerbo dei milites a cavallo poichè il cavallo era il requisito base per il grado sociale per combattere, insieme a loro dei fanti prelevati secondo una forma di reclutamento quartiere per quartiere ( fa venire in mente il modello “tribale” del reclutamento romano prima della riforma di Mario ) ed equipaggiati con uno scudo molto grande chiamato pavese e da qui noti come pavesati.

La forza militare costituiva appena il 2% della popolazione cittadina in buona parte dei comuni di fine Duecento, una percentuale molto bassa ma dotata degli strumenti sufficienti anche per sterminare città toccate dalla sventura per quanto ancora le grandi devastazioni che avrebbero flagellato l’Italia rinascimentale erano da venire. Il reclutamento avveniva per chiamata inviando messaggeri ai piccoli cavalieri e nobili, talvolta anche prendendo in prestito da altre autorità comunali, alleate e non in cambio di profitti preventivati, tutti rigorosamente stabiliti in veri e propri contratti cum equis et armis. I sopracitati berrovieri ad esempio venivano in buona parte dall’Emilia e dalla Lombardia al servizio e protezione dei potestà della Toscana. Nel reclutamento si aggregavano anche parenti ed amici al seguito e a spese personali dei milites.

E così rivediamo Dante, in armi, senza penna ma con spada e lancia, a cavallo insieme ai suoi di pari grado sociale,forse più ricchi, forse meno. Nel trambusto di una torma di uomini ricoperti di cuoio e ferro, in sella a cavalli adornati dei colori di famiglia senz’altro il Sommo Poeta ha provato un profondo sentimento umano: la paura.

Imbardato con i colori nero e oro di famiglia e con il giallo del suo quartiere Porta San Pietro guidato dai Cerchi, prendendo il suo posto ebbe temenza molta ed allegria grandissima nella fatidica giornata dell’11 giugno 1289 presso Campaldino quando si era trovato in mezzo agli armati di Arezzo, una delle città della lega avversaria, della quale sarà futuro cittadino uno dei biografi di Dante quale Leonardo Bruni. L’umanista aretino si occupò infatti molto di quella battaglia descrivendo con minunzia la sconfitta dei suoi quando, caricando la schiera fiorentina, vennero poi travolti senza scampo.

Lo storico mercante Giovanni Villani, precedente a Bruni, raccontava che mentre Dante e i suoi compagni erano impegnati con gli aretini, altra cavalieria del Giglio intervenne e fedì i nemici per costa, e fu gran cagione della loro rotta.

La battaglia si tramutò in una grandissima zuffa, fra la polvere e il fango sollevati dagli zoccoli quando si avventarono sui ghibellini anche altri milites della parte guelfa, però di Pistoia sotto la guida di Donati portando vittoria decisiva per Firenze.

Così strage fu di cavalieri ghibellini di Arezzo, compreso diversi capitani e personaggi importanti fra cui pure un vescovo, Guglielmino Ubertini ucciso mentre combatteva forse con la mazza visto che era formalmente vietato ai sacerdoti spargere sangue cristiano.

Quiv’era l’Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Dante è invece di quella fatidica giornata sopravvissuto, lo immaginiamo con i segni della battaglia ma la sorte per lui ha scelto ben altro destino per quanto triste come lo è per chi è destinato a non riveder più la patria.

I versi che ci incantano ancora dopo più di settecento anni hanno potuto ora avere come patria tutta quella serva Italia, di dolore ostello e un tempo giardin de lo mperio

lontano dalla sua Florentia, senza mai più ritornarci, nemmeno da morto.

GABRIELE SUMA

ott 11, 2021 - Notizie    No Comments

La Tomba degli imperi

L’Afghanistan è in fiamme, le forze NATO arrivate sul posto vent’anni prima poco dopo il crollo delle Twin Towers hanno da poco completato il ritiro lasciando il paese alla mercè dei talebani.

Chi sono i talebani ? nel 2000 durante la campagna presidenziale Bush Jr, destinato a diventare simbolo della politica interventista “neo-con” su scala globale, si stava intrattenendo con una giornalista della rivista Glamour quando ad un certo punto in un gioco di parole rimase interdetto alla parola “talibans”. Il futuro POTUS, confuso ed imbarazzato, rispose che forse si trattava di un gruppo rock.

Chi sono dunque i talebani ? difficile rispondere senza scadere nella banale quanto altrettanto vera attestazione di una manica di farabutti dall’aspetto trasandato e di feroce indole. La “Tomba degli Imperi”, definizione coniata negli anni ’90 dopo la sconfitta sovietica, è luogo dove si dividono un territorio apparentemente povero e desertico etnie bellicose, in odio da secoli se non millenni senza tregua. In linea generale si potrebbe descrivere come spaccata in due da nord verso sud senza però veri confini, resi sfumati dall’aspro carattere montuoso che sovrasta inesorabile le città. Il Nord, abbracciato alla profonda Asia un tempo cuore di barbari imperi a cavallo, è dominato da etnie simili a quelle che noi potremmo di comodo definire “turche” se non al limite persino “mongole” a colpo d’occhio superficiale. Un osservazione certamente superficiale in considerazione del fatto che gli afghani in generale non sono nè mongoli nè arabi e neppure di tipo iranico per quanto poi possono avere nel sangue geni dei macedoni e greci che seguirono Iskander così come i persiani chiamarono il giovane conquistatore Alessandro Magno.

Chi sono allora i talebani ? Si può cercare di capire prendendo atto che prendono origine dalle schegge impazzite di una violenta reazione al regime ritenuto estraneo, sopratutto in seguito ai disordini politici emersi in seguito alla caduta della monarchia nel 1973. Un colpo di stato consumato all’interno della cerchia famigliare dei Khan che governava dal 1926 dopo una lunga dominazione britannica tra altro contrastata fieramente nel XIX secolo. La posizione geografica del paese lo condannava ad essere oggetto di sanguinose contese fra grandi potenze confinanti facendo sì che di volta in volta che si imponeva un dominio, la parte estromessa giocava sulle divisioni tribali per indebolirlo. Una situazione aggravata dall’inevitabile carattere globale del confronto per il ruolo dominante della Russia nel continente euroasiatico secondo la lettura classica di Mackinder e Spykman. In base alla geopolitica classica dei primi del XX, tuttora fonte di riferimento per comprendere le posizioni politiche degli stati, si ritiene l’Eurasia divisa in due macroaree quali Heartland ( il cuore centrale della massa continentale ) e Rimland ( la periferia ), delle quali la prima viene controllata attualmente dalla Russia ritenuta inevitabilmente spinta ad espandere il proprio dominio sul resto del continente diviso fra stati più deboli e piccoli a danno degli interessi delle altre potenze del globo, all’epoca l’impero britannico, più recentemente gli USA. In effetti il XIX secolo era anche caratterizzato dalle dinamiche del “Grande Gioco” fra l’Impero Britannico e l’Impero Russo, entrambi protesi ad aumentare la propria influenza a discapito dell’altro in Asia, in particolare proprio il cuore centrale del continente, dal Caucaso all’India con centinaia di milioni di abitanti divisi da altrettanto centinaia di lingue ed espressioni culturali in mezzo a ricchezze sfavillanti o nascoste fra sedimenti rocciosi e dune desertiche.

Orwell, da ex ufficiale dell’impero di Sua Maestà, colse molto bene il significato strategico di quell’area descrivendolo nel suo immaginario futuro distopico di 1984 come l’area principale di dispute fra le superpotenze “da brazzaville a Tangeri ( Africa ), da Tangeri a Hong Kong ( Asia centrale ), da Hong Kong a Darwin ( sud-est asiatico )” . Si tratta infatti di aree che sono diventate ancora più importanti per la presenza di risorse indispensabili per il funzionamento delle telecomunicazioni cardine della nostra attuale società avanzata oltre che per l’industria ( petrolio, carbone..). Un elemento non previsto dagli studiosi ed osservatori del secolo scorso è l’avvento della Cina così come sconvolse il mondo l’impero giapponese. L’attuale situazione potrebbe suscitare inquietudine in considerazione dell’esperienza tragica delle ambizioni distruttive dell’impero del Sol Levante.

Le attuali forze politiche e militari tuttora esistenti nel paese si sono sviluppate durante la guerra di liberazione afghana in seguito all’ennesimo e stavolta maldestro colpo di stato organizzato dall’URSS verso la fine degli anni ’70 dopo che i governi Daud e Taraki si sono succeduti in rapida successione uno dopo l’altro. Una decisione disastrosa in seguito alla constatazione da parte di Mosca dell’ingovernabilità in un area da essa considerata proprio “giardino di casa” per la sua posizione legata alle repubbliche sovietiche popolate da maggioranza musumana. Un calcolo basato su presupposti validi ma l’eliminazione del presidente Amin “a tradimento” nel suo stesso palazzo e a successiva invasione non fecero altro che spaccare il paese ancora più profondamente. Diverse sezioni delle forze armate infatti non accettarono la situazione e si unirono ai ribelli che guadagnarono così esperienza ed organizzazione militare utili per la continuazione della battaglia.

I ribelli che finora si erano opposti già al governo Taraki emerso nel 1978 in seguito al massacro dell’intera famiglia del precedente presidente Daud e sostenuto dai sovietici non ebbero una chiara organizzazione fino al 1981 due anni dopo l’invasione russa quando i dissidenti rifugiati nel confinante Pakistan non gettarono le basi della IUAM da cui deriva il termine Mujahidden che tutti noi conosciamo anche con film come quello di Rambo. IUAM è la sigla in arabo di Ittehad-i-Islami Mujahidden-i-Afghanistan che in italiano significa Unità Islamica dei Mujahidden Afghani. Mujahidden significa combattente per la Jihad la guerra santa. In pratica si volle dare alla guerriglia i connotati di lotta non solo nazionale ma anche identitaria e religiosa alla stessa maniera dei ribelli spagnoli contro il percepito senza dio Napoleone in passato.

In seguito la IUAM si sfaldò rapidamente con la conseguente scissione in due gruppi molto importanti che segneranno la spaccatura successiva del martoriato paese quali il cosidetto “gruppo dei sette” e il “gruppo dei tre” profondamente diversi in base all’approccio ideologico alla lotta. Questi gruppi non erano compatti e già a metà degli anni ’80 cessarono di esistere generando da essi nuove entità e personalità fra cui lo spietato “Hezb-e-Islami-Gulbuddin” ( Partito Islamico ) meglio noto come HIH guidato da Hekmatyar che dopo la guerra contro i sovietici diventerà uno dei responsabili della distruzione di Kabul e della caduta del primo governo post-sovietico nei primi anni ’90 e ironicamente anche pure la prima “vittima” dei talebani con i quali per anni ha intessuto ambigue relazioni che tuttora persistono ( formalmente è parte dell’attuale governo talebano ) .

Altri partiti islamici erano emersi dalle costole della IUAM, molti di etnia pashtun tranne il JIA guidato dal Leone Massoud, il gruppo tagiko “moderato” e laico fondamentalmente che diventerà uno degli acerrimi nemici dei talebani mentre si fecero subito notare per spietatezza i pakistani del Belucistan afghano supportati dal Pakistan, sotto la bandiera dell’IRMA cioè “movimento islamico rivoluzionario” di Nabi Mohammadi.

Questi gruppi si opponevano ai sovietici nel loro modo, senza una vera coordinazione permettendo ai sovietici di conservare a lungo le posizioni strategiche più importanti e meglio difendibili a lungo.

Mentre si facevano e si disfacevano questi gruppi, fece rapida carriera il fondatore di quelli che oggi conosciamo “talebani” quale Mohammed Omar proveniente dal Kandahar il profondo sud del paese fra i ranghi dei tagliagole proprio del tristemente noto Nabi Mohammadi. Mentre egli iniziava a farsi conoscere per la sua indole sanguinaria, già un gruppo si faceva chiamare taliban da alcuni gruppi pashtun che si erano staccati dal partito retto dallo spietato Hekmatyar.

Il termine taliban identifica generici studenti coranici impegnati a mettere in pratica tutti i dettami del Corano con ogni mezzo e seminavano il terrore già negli anni 80 sotto la guida di Yunis Khalis padrone indiscusso della regione di Nangarhar direttamente confinante con il Pakistan,fin dall’inizio, santuario di gruppi simili.

Verso la fine degli anni ’80 i sovietici stavano iniziando ad “afghanizzare” l’Afghanistan nella stessa maniera in cui gli americani “vietnamizzarono” il Vietnam del Sud ergo imbastendo un programma graduale di ritiro mentre erano iniziati i negoziati per porre fine al supporto internazionale nei confronti dei vari gruppi ribelli. L’armata rossa svolse una serie di operazioni per preparare la strada al rientro in patria mentre un nuovo governo ( Najibullah ) installato da Mosca cercava di intavolare una tregua facendo concessioni e integrando nell’amministrazione esponenti islamici ed applicando norme coraniche. Omar, il futuro capo degli attuali talebani, combattè nelle battaglie finali guadagnandosi la leadership sul campo in particolare per la sua capacità organizzativa nel distruggere i carri armati, conquistando anche l’attenzione dei pachistani principali protettori dei gruppi più intraprendenti durante il conflitto.

Negli ultimi mesi della guerra i talebani di Khalis si fusero con il gruppo di Omar collaborando insieme per rovesciare il governo di Najibullah indebolito dal ritiro sovietico e in questo frangente che iniziava a circolare sui media occidentali la storia dei talebani etichettandoli ideologicamente come “cattivi” diversi dai Mujahidden che per anni erano definiti “combattenti per la libertà” in toto in ossequio alla propaganda della guerra fredda del tempo. Omar si fece strada contrastando signori della guerra locali per acquisire prezioso sostegno popolare. Nei primi anni ’90 il suo gruppo divenne così fra i più potenti ed influenti anche grazie a legami con la criminalità organizzata internazionale per la produzione degli oppiacei divenuti più redditizi per i coltivatori e contadini che si erano ritrovati con le campagne devastate dai bombardamenti e minamenti da parte sovietica durante la guerra di liberazione.

Omar divenne ufficialmente leader del variegato sistema taliban nel 1996 investendosi del rango di guida dei fedeli per proclamazione dai suoi seguaci con tanto di rituale adozione di un sacro paramento ritenuto indossato dal Profeta nella città di Kandahar loro principale base e fortezza. Dopodichè egli rovesciò i suoi vecchi capi sopratutto Khalis devastando poi la capitale Kabul ed assassinando Massoud mentre collassava rapidamente il governo che era anche gestito dai tagiki e turkmeni tra l’altro acerrimi nemici dei pashtun fonte della principale forza militare dei talebani.

Le attuali circostanze e la lunga guerra ventennale che noi tutti conosciamo derivano da una circostanza ( o pretesto, a seconda delle opinioni ) in cui Omar, oltre che ricercando supporto dalle mafie e dal Pakistan, si era anche legato con i wahabiti sauditi che operavano da alcuni anni in forma militare contro l’occidente sotto forma di Al Qaida. Uno dei principali capi di tale organizzazione che potrebbe suscitare in noi fantasiosi paralellismi con la mitica Spectre di 007 era Osama Bin Laden che aveva preso rifugio insieme ai suoi uomini in Afghanistan verso la fine degli anni ’90. Omar lo accolse anche per rispettare il precetto islamico di protezione per gli ospiti specie musulmani rendendo così il suo territorio che era più della metà dell’Afghanistan santuario per gli Al Qaida. In quel periodo si svolsero anche incontri con alti esponenti politici dell’Arabia Saudita patria di Bin Laden che invece chiedevano ad Omar la consegna dell’ospite ricevendo però netto rifiuto.

Quando nel 1998 esplosero le bombe che distrussero le sedi consolari in Tanzania e in Kenya, Al Qaida, ritenuta responsabile degli attentati, divenne bersaglio per gli USA che iniziarono a colpirne le basi in più aree del mondo. I talebani hanno continuato a rendere l’Afghanistan santuario per Al Qaida che manteneva il proprio personale accampato presso varie località, le più grandi ed importanti presso Kandahar, la capitale talebana, sotto il nome di “campi di allevamento di Tarnak” e “Al Farouq” che ripresero attività dopo la rappresaglia americana in seguito agli attentati di cui sopra. I bombardamenti del 1998 diedero acqua al mulino all’Al Qaida che diventò martirio agli occhi di numerose organizzazioni islamiche preparando il terreno al futuro drammatico attentato dell 11/9/01. Secondo varie interpretazioni, Omar, il leader dei talebani, non sosteneva i piani degli Al Qaida ma ne è stato comunque responsabile per aver continuato ad ospitarli e proteggerli, anche con l’ambigua condiscenza e complicità del Pakistan partner strategico di ogni gruppo e tribù dello sfortunato paese. Dopo il crollo delle Twin Towers i talebani sono diventati così il bersaglio diretto ma anche pure quelli di nuovo al governo, vent’anni dopo, senza Omar essendone morto già dapprima in circostanze ancora poco chiare nel 2015.

GABRIELE SUMA

ago 8, 2021 - Notizie    2 Comments

Lance fra i due mari

La Storia ha i suoi ritorni ciclici, alla fine di un lungo viaggio si ritorna al punto di partenza anche a distanza di secoli. Taranto non è esclusa dal destino ricamato dalle Moire le sinistre donne della mitologia greca.

Fermiamoci dunque in un momento in cui l’ex colonia dei figli di Sparta, con il nome di Taras leggendario fondatore, si era liberata della protezione crudele e benevola di Roma per entrare nei tempi cosiddetti “oscuri” per studiosi nati quasi mille anni dopo gli avvenimenti. Lasciamo per un momento la Nobilissima Urbs per allargare la visione all’intero “mondo conosciuto” così come era stato delineato dalle carte di Eratostene e Tolomeo: il Mediterraneo non più Mare Nostrum.

Fin dalla notte dei tempi il bacino del Mediterraneo si prestava alle azioni belliche e piratesche. Poche civiltà erano state risparmiate dal flagello. Il dominio romano aveva interrotto tale attività con campagne militari sostenute con tenacia da Pompeo ed Ottaviano. La flotta militare romana, negli anni migliori dell’Impero, ha garantito la pace in tutto il Mare Nostrum.

La Puglia, una regione alquanto sfortunata, fu uno dei teatri principali del mediterraneo in fiamme. La posizione strategica permetteva il controllo della penisola un tempo centro di quell’Impero che Giustiniano e i suoi successori sognavano di ricostituire ad ogni costo. Le sanguinose guerre ( dal 535 al 553 ) fra Romaioi e goti ne testimoniavano la volontà anche contro la forza della Storia stessa.

Taranto, poco prima delle guerre greco-gotiche, era ancora strutturata nella combinazione di vecchia acropoli con l’area urbana di epoca romana ancora protetta da difese murarie di età imperiale. Le necessità belliche trasformarono l’urbe a spese soprattutto dell’acropoli, area di templi ed edifici pubblici, in una nuova dimensione socioculturale con in sé le premesse del futuro Borgo Vecchio. L’antichissima industria della porpora ricavata dai molluschi, d’altro canto, permise il mantenimento di un patriziato e di un ceto mercantile che non badarono a spese per proprie ville e residenze destinate ad essere, in diversi casi, fortificazioni private negli ultimi anni dell’Impero. I goti, contendendo aspramente con le armate di Belisario la penisola, dilagarono in Puglia. Il conflitto interessò molto da vicino Taranto, essendo utilizzata dall’Impero Giustinianeo come punto di scalo per le truppe dirette a difendere Otranto ,importante base per il controllo della Puglia.

Totila, il sovrano dei goti, precisamente ostrogoti, conquistò Taranto nel 549 d.C. per il suo valore strategico di collegamento. La dominazione ostrogota sulla città fu di relativa breve durata ma sufficiente per il completamento delle ristrutturazioni iniziate dai bizantini con aggiunta di un paio di nuove torri ( le torri del Gallo e del Cane ) ancora visibili fra le abitazioni del borgo vecchio. I bizantini, ritornati nel 552, si preoccuparono di estendere le difese anche dove sorgevano complessi termali attualmente sepolti dall’attuale Piazza Ebalia. Il risultato fu la realizzazione di infrastrutture difensive alle basi di quello, fino a non molto tempo fa ,erroneamente ritenuto castello saraceno in relazione all’accampamento tenuto dai futuri invasori pirati in loco molti secoli dopo.

Le grandi devastazioni delle guerre greco-gotiche avevano danneggiato notevolmente il commercio in tutta la penisola compresa Taranto che fino a quel momento importava ed esportava merci e ricchezze in particolare con la Calabria. Nonostante le difficoltà economiche ebbe vita, nell’assetto sociale ed urbano, una piccola ma intraprendente comunità ebraica, della quale sono stati rinvenute, verso la fine del 1800, alcune iscrizioni e tombe, in particolare nella zona attualmente occupata dal Palazzo degli Uffici.

La penisola italiana era quasi completamente devastata dai passaggi distruttivi degli eserciti imperiali e goti aprendo la strada ad una nuova invasione stavolta portata avanti dai longobardi che entrarono in scena nel 568 d.C. Un enorme numero di persone, non solo guerrieri, era guidato da Re Alboino marito di Rosmunda da noi più conosciuta per il bevi rosmunda! dal teschio tondo del tuo papà! ( Cunimondo re dei Gepidi ) nella satira di Achille Campanile poliedrico giornalista e sceneggiatore del XX secolo. Ad un mito raccontato dallo storico Paolo di Warnefrido, più conosciuto come Paolo Diacono autore della celebre Historia Longobardorum si fa risalire il nome longobardi. Lo storico narra che una grande battaglia era imminente fra il popolo dei Winnili e nemici non ben identificati wandali ( da non confondere con gli storici vandali conquistatori della penisola iberica e Africa verso la fine dell’Impero romano ). Frea, consorte del dio Odino, intendeva dare la vittoria ai Winnili contrariamente alla volontà del marito che ha scelto invece i wandali. La moglie, venerata dea della fertilità e dell’amore, ordinò alle donne winnili di presentarsi ad Odino con i capelli riversi sul volto come se fossero lunghe barbe alla maniera dei loro compagni guerrieri per ottenere, con inganno, la forza del padre degli dei. La vittoria, così come ottenuta, fu schiacciante e da quel momento il popolo dei Winnili assunse il nome di longobardi per le lunghe barbe sfoggiate da uomini e donne unite dal medesimo coraggio virile in contrapposizione con i più civilizzati ma indeboliti romani secondo quanto, forse, voleva far intendere il cristianizzato ma orgoglioso storico longobardo Paolo. Esiste anche un altra teoria per spiegare il mito quale la possibilità che gli antichi Winnili non avessero la barba a differenza dei nemici favoriti da Odino con la conseguenza che Frea, astutamente, ingannò il compagno con lo stratagemma delle finte barbe fatte dai capelli per strappare la vittoria per mano sua.

In ogni caso, i longobardi, noti anche per le lunghe lance, scesero in Italia portandosi dietro anche numerose schiere di alleati e vassalli sottomessi in seguito a numerose vittorie conquistate sul campo senza incontrare molta resistenza dalle indebolite forze imperiali e da una popolazione stanca di disordini, tasse e saccheggi di un conflitto interminabile. Numerose città, pur diroccate e ombra di quelle che furono, cedevano le chiavi al loro passaggio particolarmente evocato con tinte fosche dalla letteratura ecclesiastica che deplorava saccheggi di luoghi religiosi e uccisioni di sacerdoti. Dal 572 d.C in poi iniziò a prendere corpo il dominio territoriale dei longobardi su gran parte dell’Italia con capitale nominale Pavia poco tempo dopo la morte improvvisa del re condottiero Alboino fatto uccidere da Rosmunda. Il regno era in realtà una confederazione di feudi privati governati dai duchi ( dal termine latino Dux “comandante” ).

Una nuova congiura, stavolta supportata dall’Imperatore Giustino II desideroso di rivincita, pose fine al primo embrione di regno con la morte del Re Clefi successore di Alboino.

Prima di tali eventi, un condottiero, Zottone, pensò di conquistare un proprio dominio personale scendendo a sud Italia dove ancora diversi territori restavano sotto l’Impero con buone prospettive di bottino e gloria. Il suo esercito, evitando le ben presidiate coste, attraversava il montuoso entroterra appenninico utilizzando, secondo alcune ipotesi, la ancora efficiente Via Flaminia.

Nel 570 d.C Benevento, investita dall’assalto longobardo, cadde facilmente permettendo ai longobardi di rafforzare le proprie posizioni senza molestie da parte degli imperiali troppo impegnati in altri fronti in tutto il Mediterraneo, sfruttando anche l’appoggio di soldataglia senza paga e lavoro da parte del Basileus nella regione.

Il monastero di San Benedetto di Cassino fu fatto oggetto di saccheggio sistematico, data incerta ma circa anni ’80 del VI secolo. I longobardi, a differenza dei precedenti invasori, si distinsero nell’evitare stragi inutili di innocenti come è testimoniato dal fatto che Zottone permise al clero del monastero di rifugiarsi a Roma dove governava, formalmente in nome dell’Impero, il pontefice e vescovo della Caput Mundi Pelagio II. Mentre Zottone proseguiva, un’altra colonna guidata da un altro avventuriero, Faroaldo, marciava fra le montagne. Egli procedeva senza essere ostacolato dai bizantini più propensi a comprare i nemici ma inevitabile per essi la perdita di vasti possedimenti in Italia centrale ad eccezione delle coste e le difese di Roma.

Faroaldo stabilì così in breve tempo il ducato di Spoleto e, subito dopo, tentò persino di conquistare l’Urbe in rovina senza riuscirci ma il suo dominio era destinato, ben presto, a diventare uno dei ducati più potenti e longevi del reame longobardo.

Le armate longobarde erano piccole di numero con la conseguenza che tendevano a consolidare il potere della propria gente con propri insediamenti fortificati denominati Fara da cui un certo numero di attuale cittadine tuttora conserva le proprie origini, in particolare in Abruzzo come Fara di San Martino presso Chieti. I nuovi padroniseparati dal contesto urbano e sociale dei romani sottomessi, in cambio della perdita di status di cittadini liberi, permettevano alle popolazioni soggette l’esercizio delle proprie leggi e li esentavano, di norma, da obblighi di servizio militare.

I longobardi irruppero nella scena sottraendo la città ( 568 d.C ) ai romaioi indeboliti da incessanti lotte di frontiera contro nemici secolari quali Parti e barbari balcanici come Avari e Bulgari.

I dominatori, per diverso tempo, preferivano propri capi militari ( duchi ) piuttosto che sottostare docilmente ad un vero governo centrale monarchico. Il mezzogiorno, in particolare Puglia, era difatti controllata da signori di Salerno e Benevento e da altri ducati minori. I bizantini cercavano così di tenere sotto controllo la situazione ricercando alleanza con i franchi. I longobardi però erano anche disposti a pagare tangenti agli antenati di Carlo Magno anche in pieno svolgimento di un conflitto per prevenire l’accerchiamento.

Durante il periodo la città di Taranto, rifiorì intanto per la ripresa degli scambi commerciali pur nettamente ridimensionati guadagnandosi l’appellativo di Satis Opulentas ( dal latino “abbastanza ricca” ) dallo storico monaco di Cividale Paolo Diacono ( VIII secolo ).

Taranto ritornò presto ad essere una base per operazioni militari dell’Impero d’Oriente in Puglia contro i longobardi così come raccontava sempre Paolo Diacono, autore e storico della celebre Historia Langobardorum:

l’imperatore Costante II Eraclio giunse a Taranto, partito di là. Invase i territori dei Beneventani ( … ) Attaccò con gran forza anche Lucera, ricca città della Puglia, poi, espugnatala,la distrusse radendola al suolo ( 663 d.C )

Si stima che l’esercito fosse costituito in buona parte di armeni, ottimi combattenti e bene armati, da sempre considerati positivamente fin da quando combatterono come alleati sotto i vessilli del vecchio impero romano contro i parti secoli prima.

L’esercito imperiale proseguì l’avanzata fin sotto le mura di Benevento allora difesa strenuamente da Romualdo che richiese aiuto al padre Grimoaldo allora padrone di terre in Nord Italia. Grimoaldo accettò di intervenire ma dovette anche combattere contro i franchi allora alleati dei bizantini nei territori settentrionali. I longobardi impegnarono gli imperiali con rapide sortite contro gli accampamenti e Costante, alla notizia dell’imminente arrivo di Grimoaldo vincitore contro i franchi ad Asti, rinunciò all’assedio ritirandosi a Napoli. Paolo Diacono raccontava di una vittoria longobarda presso il fiume Calore da parte di alleati capuani di Romualdo. Nella battaglia di Forino, in Campania, gli imperiali vennero poi definitivamente sconfitti nel 663 d.C. La fallimentare campagna spinse Costante a ricercare compenso a spese di Roma secondo quanto narra Paolo Diacono :

( … ) la spogliò di tutto il bronzo posto in tempi antichi ad ornamento della città, e giunse al punto di scoperchiare anche la basilica della Beata Maria ( Pantheon )

La condotta violenta e spregiudicata dell’Imperatore è stato motivo poi di complotti contro la sua persona fino all’attentato mortale nel 668 d.C a Siracusa. Un ennesima guerra civile scatenata dall’usurpatore armeno Mecezio lasciò il campo libero ai longobardi che sottomisero facilmente la Nobilissima Urbs. I bizantini rimarranno divisi ed indeboliti dalle lotte di successione culminate per vent’anni fino all’ultimo imperatore della dinastia eracliana Costantino II.

Le vicende nei domini longobardi si legarono con il destino di Taranto per quasi due secoli. Una sanguinosa contesa, nel 840 d.C, si scatenò fra i fratelli Siconolfo e Sicardo figli di Sicone duca di Salerno e Benevento. Sicardo prevalse conquistando i propri diritti di dominio imponendo allo sconfitto la vita monacale a Taranto a scopo di tenerlo sotto controllo. In quei terribili tempi era saggezza uccidere i fratelli e parenti per assicurarsi il potere ma Sicone, forse per scrupoli, preferì non sporcarsi le mani imponendo l’esilio. Il vendicativo Siconolfo non rinunciò mai al trono che gli era stato sottratto abbandonando presto la via della tonsura impostagli. Orso, conte di Conza, parente ed alleato lo tenne sotto la sua protezione, permettendogli di guadagnare supporto in diverse città utilizzando i suoi legittimi diritti al trono ducale. In seguito alla morte di Sicardo, Il ducato era nelle mani del ministro Radelchi, sì capace amministratore del tesoro ,ma illegittimo per i potenti signori locali che scelsero piuttosto Siconolfo come legittimo Duca. Napoli e Capua si ribellarono al Ducato di Benevento anche per antichissime rivalità cogliendo occasione della crisi di potere per acquisire maggiore autonomia. Radelchi vide il grande ducato disfarsi nella guerra civile subendo anche assedio nella propria città, Benevento. Lo spargimento di sangue indeboliva talmente le fazioni in lotta che ricorsero a mercenari stranieri, anche i cosiddetti saraceni.I mercenari, chiamati per aiutare Radelchi nella lotta senza quartiere contro il pretendente, colsero occasione per prendere il potere a Bari. Il loro dominio sarebbe durato dall’847 all’871 con conseguenze anche fatali sul futuro del dominio longobardo sull’intera regione. La situazione si ripeterà anche con i normanni in circostanze diverse.

Il dominio longobardo ha lasciato pochi segni architettonici non sempre riconoscibili. Nella parlata pugliese sopravvivono alcuni termini della loro lingua. I dominatori, all’inizio, preferivano abitare in comunità separate con pochi contatti con le città soggette. Le popolazioni locali avevano perso diritti politici ma conservarono ampia autonomia nella sfera del diritto romano della società tardo imperiale. Le città sottoposte ai duchi beneficiarono dell’assenza dei romani d’oriente, detestati per la pesante tassazione imposta per finanziare continue guerre imperiali. I longobardi inoltre, dopo iniziali massacri delle fasi guerresche, smisero di perseguitare i cristiani e, all’inizio, continuarono a mantenere vive proprie forme di trascendenza nei propri insediamenti e castelli.

GABRIELE SUMA

giu 9, 2021 - Notizie    No Comments

Cronache del Ghiaccio e del Fuoco

1870, palle di cannone rotolando sul dolce prato di Francia posero fine, ancora una volta dopo poco più di mezzo secolo, all’impero creato dalla dinastia fondata da un ambizioso ufficiale di artiglieria. A distanza di trent’anni dalla deposizione per il riposo eterno dei resti del nonno nel grandioso Palazzo degli Invalidi, il nipote diede la spada al Re di Prussia, la stessa nazione che pose fine alle speranze francesi a Waterloo. Il regno di Luigi Bonaparte terminò bruscamente così come era nato lasciando il passo ai vincitori che si ritennero destinati a creare un nuovo impero nel cuore dell’Europa. Fra le vetrate splendenti di Versailles, stivali teutonici battevano il tacco per festeggiare l’Impero della Germania che non aveva nulla a che spartire direttamente con l’antico Sacro Romano Impero abolito proprio dal primo Imperatore dei Francesi. Il cosiddetto Reich ( che gli storici indicano “primo” per differenziarlo dai successivi cambi di regime ) sarà di breve durata, segnato dalla maledizione della vittoria stessa trascinando con sè tutti gli altri imperi del Vecchio Mondo mezzo secolo dopo.

La Storia marciava a passo cadenzato ma nell’aria si sollevava pure il futuro. Un futuro racchiuso in forme quasi sferiche fatte di materiali infiammabili, pericolosi per chi voleva sfidare la gravità e la natura. Tali forme sono definite “mongolfiere” dal cognome di Jacques Montgolfier che aveva disegnato in età moderna il primo prototipo. Nel fatidico 1783, si staccò dal suolo per pochi ed emozionanti minuti sopra le case di Parigi ancora molto diversa da come la conosciamo. Nel 1785 avvenne in seguito la prima storica traversata della Manica con il pallone stavolta riempito di idrogeno, impresa quasi suicida per i rischi dovuto all’instabile elemento. I vari tentativi di staccarsi dal suolo erano stati purtroppo costellati da incidenti, talvolta pure mortali.

Robespierre aveva tuttavia intuito bene l’utilità in campo militare di tale invenzione inaugurando la Ecole Aerostaticque che ebbe però vita breve poichè Napoleone disprezzava le mongolfiere pur usate molto durante la rivoluzione francese. Gli americani, di solito sempre pronti alle innovazioni, infatti rimasero perplessi a lungo. I francesi riportarono solo molto più tardi in auge i palloni in campo militare, come postazioni di osservazione ad alta quota nel 1859 durante la seconda guerra di indipendenza italiana. Nello stesso periodo gli austriaci pensarono di caricare le mongolfiere con bombe incendiarie da sganciare su Venezia che si era in quel frangente ribellata, con esito però fallimentare.

All’approssimarsi del disastro dell’esercito francese, si instaurarono le basi di un uso sistematico dei palloni non da Parigi ma da Metz. Per la prima volta si era riuscito a smistare comunicazioni postali tramite palloni con regolarità nonostante la scarsità di idrogeno ottenuto al tempo solo da estratto di acido solforico. Nella capitale iniziarono i primi voli più tardi, inaugurati da Mademoiselle de Montgolfier figlia dello scienziato che aveva dato il nome. I prussiani in più occasioni si limitavano a contemplarli anche sopra Versailles usata come base del comando supremo degli assedianti. Ad un certo punto i prussiani organizzarono squadre di cavalleria per intercettare gli atterraggi fuori dal perimetro fortificato della capitale con il supporto di osservatori che comunicavano via telegrafo.

La situazione diventò surreale quando l’astronomo Pierre Janssen utilizzò uno di questi palloni superando il campo di battaglia per…studiare l’eclisse solare in atto in Algeria per quanto poi il suo sogno non si realizzò non per le bombe della guerra in corso ma per banali nuvole nel cielo sovrastante l’arsa colonia francese.

I materiali diventavano, nel corso dell’assedio, molto grezzi, al limite della pericolosità per uso di cotone invece di seta e il gas prodotto da mero carbone, senza protezioni contro agenti atmosferici. L’ancora era letteralmente l’unico appiglio di salvezza, unita ad una corda di più di cento metri per quanto i palloni potevano raggiungere rapidamente altezze oltre i limiti di sicurezza. Nonostante il pericolo, o forse proprio per questo, non mancarono mai tuttavia persone disposte a rischiare.

Numerose donne avevano contribuito a cucire e ricamare i tessuti dei palloni prodotti in serie per tutto il periodo dell’assedio ( circa 5-6 mesi ). l’esperto aviatore Eugène Godard gettò le basi di una vera e propria professione di piloti di mongolfiere arruolando, curiosamente, moltissimi marinai che si erano presentati volontari.

In ogni caso ci si rendeva conto drammaticamente che le mongolfiere non erano regolabili a piacere, dipendenti dai capricci del vento e spesso di sola andata spingevano i responsabili a ricercare una soluzione. Il chimico ed aviatore Gaston Tissandier propose e sperimentò personalmente primi rudimentali dirigibili più volte, ma senza successo, rischiando pure di finire prigioniero dei prussiani in una concitata notte priva di luce lunare a causa dei soliti ed imprevedibili capricci dei venti.

Nel gelido novembre parigino nell’intenzione di rompere l’assedio con forze francesi superstiti al disastro di Sedan si pensò di organizzare un azione congiunta con la città assediata. L’operazione richiedeva notevoli spostamenti di truppe. I prussiani non ebbero difficoltà a capire le intenzioni rafforzando così le posizioni in notevole anticipo. Era necessario frattanto per Parigi tentare di comunicare con l’armata di soccorso e per tale scopo era stata affidata la comunicazione ad una mongolfiera oggi nota con il nome di Ville d’Orleans. L’equipaggio era costituito da Valéry Paul Rolier e Leonard Bézier che iniziarono la missione il 24 novembre recando a bordo i dispacci di grande importanza militare oltre al necessario per un viaggio che già si considerava pericoloso per il buio notturno ( per evitare i prussiani ) e i rigori dell’inverno francese.

cosa?….” abbassando lo sguardo, l’orrore della scoperta dopo alcune ore nell’oscurità: “senti anche tu qualcosa di strano, Paul?”. Il suono era tragicamente famigliare e solo un mormorio “il mare”. Qualcosa era andato storto, i venti sono stati di nuovo più imprevedibili dei folletti delle leggende, stavolta lo scherzo era stato pesante: contrariamente alle aspettative, invece di muoversi all’interno del territorio, erano stati sospinti per tutta la notte verso le gelide acque del Mare del Nord.

La scintillante superficie del mare, increspato da onde alle prime luci dell’alba assumeva il profilo della morte per i passeggeri in balia della natura. Il pallone guadagnava velocità verso il basso ed era arrivato il momento di decidere se scaricare pesi. “pure questo?” Rolier si chiese tenendo fra le mani voluminosi pacchi contenenti proprio i messaggi affidati per la missione “se non li scarichiamo moriremo, ragazzo mio in ogni caso se toccheremo terra da qualche parte…stanne certo che non serviranno più” rispose Bézier. Guardandosi intorno “potremmo finire in Inghilterra ( neutrale durante il conflitto ) e restare sotto custodia e le lettere sotto sequestro…oppure il peggio, finire in Prussia” un brivido gli percorse la schiena “potrebbero mettere mano su queste lettere”. La decisione fu dunque rapida, i dispacci presero il volo permettendo al gabbiotto di levarsi verso l’alto.

cosa ne sarà di noi?” parole perse nel vento che si faceva più pungente, attanagliando le membra e le ossa “dove siamo?” dominava i pensieri degli uomini persi nel cielo. Dopo un lungo momento di inquietudine qualcosa emerse nel bianco scintillante delle nebbie sottostanti. Non era la dolce Francia e neppure l’Inghilterra, ma neppure il nero mare; “alberi!” il freddo aveva chiuso le screpolate labbra ma era un urlo interiore, terra significava poter sopravvivere, certamente con più probabilità rispetto all’assiderazione immediata nelle acque. “ora o mai più”, nemmeno si parlarono, l’istinto li guidò a compiere l’estremo: abbandonare tutto.

merde” parola rimembrante ben più gloriosi attimi di cattiva sorte. Si resero conto che il vento li stava spingendo, l’ancora era andata perduta e non c’era modo di scendere se non osare il tutto per tutto.

giù!” con un balzo abbandonarono il piccolo cabinato che riguadagnò velocemente quota. Neve, soffice neve, si scossero doloranti ma interi rimettendosi in piedi a stento, aiutandosi a vicenda con lo sguardo rivolto all’orizzonte ammantato di pini, tanti pini, un mare di pini. Non si persero l’animo “non possiamo fermarci, cerchiamo di muoverci, importante è muoversi”.

Dopo alcune ore…l’oscurità stava rapidamente avvolgendo ogni cosa “non chiudere gli occhi!” esclamò disperato Béziers prendendo per il braccio Rolier che stava barcollando, il sonno uccide anche se la stanchezza era tanta, troppa. I dolori quasi non si sentivano più per il brivido che scuoteva i corpi.

Uno spazio vuoto si aprì fra le querce brinate e la foschia occupato da una capanna, piccola, quasi irriconoscibile, non famigliare ma “non sembrava prussiana”. In ogni caso erano i piedi a portarli alla soglia, piedi che sembravano quasi staccarsi. La porta era aperta ma non c’era nessuno e ogni cosa sembrava abbandonata ma il tetto non era sfondato e pur in assenza di letti, il duro pavimento era meglio del sudario bianco della neve. Si rannicchiarono a stretta distanza per conservare e scambiare il poco calore che abitava i loro corpi pensando a tutto quello che avevano dovuto abbandonare ma alla fine persuasi che si sarebbe potuto continuare ancora così. Alle prime luci quasi abbaglianti attraverso fessure del tetto, si sollevarono ancora indeboliti e ripresero la marcia sostenendosi a vicenda lasciandosi dietro la baracca.

Un altro tetto in vista, stavolta in condizioni migliori, con colori e segni di frequentazione umana. Lo stomaco ha ordinato ai piedi di violare la proprietà privata. Mani ormai pallide, quasi di pietra, insensibili al tatto si posero subito su ogni cosa che sembrasse anche solo vagamente commestibile; no non sembrava affatto cuisine française ma che importa ?

Parole indecifrabili, colti sul fatto da uomini impellicciati, dallo sguardo ostile. Non erano però prussiani ma nemmeno francesi e neppure belgi, “non sembra inglese” Béziers pensò sforzandosi di recepire il linguaggio caratterizzato da accenti e suoni del tutto non famigliari ma qualcosa lo rincuorava poiché non sembrava nemmeno aspro, tipico degli odiati prussiani che stavano bruciando la sua amata Parigi.

Gesticolando cercavano di farsi capire accompagnando con parole francesi ricevendo però risposte incomprensibili per quanto ora i presunti proprietari della casa non sembravano essere più nervosi ma solo confusi. Una scatola di fiammiferi attirò la sua attenzione, caratteri scritti alla maniera latina, comprensibile e quasi universale per gli europei : un nome appariva, di una località che colse i due uomini sopravvissuti all’incredibile avventura, “Christiania” la capitale della Norvegia, oggi Oslo.

Avevano percorso miglia e miglia ben oltre l’impensabile ma erano vivi, salvi !

I dispacci ? Un peschereccio li ha recuperati, galleggianti nel Mare del Nord, umidi ma integri e perfino ancora leggibili. La missione era però fallita, non arrivarono mai in tempo utile alla destinazione prevista, forse cambiando il corso della Storia. Tuttavia per i due uomini, Valéry Paul Rolier e Leonard Bézier, la vita poteva ancora continuare regalando loro una storia incredibile, un avventura quasi alla Verne, da raccontare a tutto il mondo.

GABRIELE SUMA

mag 14, 2021 - Notizie    4 Comments

Robin Hood d’America

Siamo negli anni ’30, dopo l’epopea spettacolosa del decennio caratterizzato da mutamenti socioculturali e sconvolgimenti di vecchie certezze. Gli anni “ruggenti” si conclusero tuttavia con lo shock senza precedenti provocato dal “Martedì Nero” ( da non confondere con il più positivo “Venerdì Nero” dei saldi ) che segnò il crollo improvviso della Borsa di New York nel freddo inverno del 1929. L’evento tuttora argomento di intensi dibattiti in America potrebbe far venire in mente quello che è avvenuto più recentemente, il crollo finanziario del 2008 che ancora influenza le dinamiche economiche e sociali in mezzo mondo compreso appunto il rifiorire del populismo.

La società americana si era trovata, dopo il ’29, fortemente colpita, tanto la classe media che il proletariato con conseguenze sulle spese pubbliche dato il minore gettito fiscale e la produzione dimezzata con riflessi su tutti gli altri settori della vita economica nazionale come il commercio, crescita industriale e statura nell’arena internazionale.

Di conseguenza sorsero istanze politiche di deciso intervento statale nei meccanismi economici della Grande Repubblica Stellata andando contro la volontà dei cittadini americani contrari al dirigismo economico caratteristico invece di molti paesi europei. La Costituzione americana è segnata infatti dal ricordo del sopruso della monarchia inglese sui coloni che rivendicavano la propria libertà e proprietà. L’istituto presidenziale secondo la costituzione doveva così astenersi da ogni forma di controllo sui cittadini eccetto il dovere di tutelare la proprietà privata e la difesa della comunità dai nemici esterni.

In opposizione al sentimento comune, erano sorte invece nuove linee di pensiero che diedero impulso alla Sociologia e a nuove teorie economiche per elaborare nuove risposte alla crisi che aveva sconvolto il sistema tradizionale come il Keynesismo ancora oggi punto di riferimento per le soluzioni stataliste.

In tale atmosfera emerse la figura peculiare di Huey Long che ha aveva attirato su di sé grande attenzione ben oltre i confini del proprio stato per alcuni anni dal 1928 al 1935.

Di umili origini, di fede battista ( una peculiare rielaborazione del protestantesimo ), era nato nella Louisiana, antica colonia francese donata da Napoleone I alle colonie, animata da istanze socioculturali controverse divenute terreno fertile per radicalismo ideologico. Long si dimostrò molto insofferente alle regole fin dalla prima giovinezza sviluppando però anche predilezione per riferimenti ideali a disciplina e rigorismo per gli altri. Entrò nella politica abbastanza presto evitando il servizio militare e la guerra e si fece notare per le sue posizioni radicali contro i “poteri forti” ( qualcosa del Deep State trumpiano di oggi ) accusate di governare la società americana dietro i grandi monopoli industriali.

Ben presto partecipò alle primarie democratiche della Louisiana ( lo stesso partito di Roosevelt ) incontrando però ostilità da parte di alcuni colleghi per la sua posizione contro sia lo Standard Oil e sia contro una compagnia telefonica, essendo lui ostile a fenomeni di monopolio ed esenzioni fiscali. Long assunse notorietà a livello nazionale per le sue battaglie legali e mantenne una posizione di neutralità nei confronti del KKK che già allora verso la fine degli anni ’20 mieteva vittime nello Stato. Pur battista sostenne attivamente i cattolici guadagnandosi notevole supporto da essi sfruttando in modo innovativo le nuove tecnologie di comunicazione come la radio e carri per propaganda stimolando la partecipazione pubblica alle questioni rivoluzionandone la comunicazione politica.

In poco tempo si guadagnò popolarità tale da consentirgli di diventare governatore dello stato nutrendo ambizione di arrivare poi alla Casa Bianca mentre sollevava dibattiti per le sue campagne moralizzatrici sostenute dalla guardia nazionale dello stato. Risiedeva in un edificio grandioso, dal quale iniziò a deliberare azioni contro le compagnie petrolifere scatenando crisi intestine nel partito democratico che ricercava accordi con esse. Long, ad un certo punto, rischiò pesanti conseguenze penali per la sua politica. Lo scontro divenne molto duro obbligando il governatore a farsi scortare mentre puniva i suoi nemici più acerrimi licenziandoli dall’amministrazione pubblica e minacciando pesanti ritorsioni legali senza remora alcuna.

La popolarità crebbe enormemente ponendosi come acerrimo nemico delle compagnie del petrolio. Egli riuscì a controbattere nemici supportati da importanti giornali con forme di propaganda che coinvolgevano instancabilmente i cittadini per la strada vincendo le elezioni per il Senato anche con uso di metodi poco ortodossi infiammando il già teso clima politico. Il noto attore Charlie Chaplin si espose dando il suo sostegno ad una campagna di accuse di frode elettorale contro l’impetuoso ma vincente governatore.

Una volta assunta la carica senatoriale, bruciando le tappe praticamente con le proprie forze e la forza indomabile del solido sostegno popolare, promosse, con crescente spregiudicatezza forse alimentata dal senso di potere per la carica rivestita, iniziative a favore dei propri amici ed alleati nel controllo dello Stato della Louisiana determinando nemici e nuovi ostacoli che potevano sbarrargli il passo verso la sua metà più ambita: la Presidenza.

La politica molto battagliera a favore dell’industria del cotone della Louisiana divideva l’opinione pubblica di fronte all’imbarazzo di molti nemici che dimostravano di non saper reagire a tale confronto dopo anni di taciti accordi reciproci anche fra avversari. Long, come Trump oggi , era diventato un “outsider” che sconvolgeva il consolidato sistema con forza dirompente di una meteorite. Long mandava avanti idee sempre più ambiziose e radicali come soluzioni di redistribuzione della ricchezza e rottura dei monopoli incontrando forte consenso, dipingendosi quasi come un Robin Hood.

Durante la sua amministrazione, vantò di aver riassettato lo stato della Louisiana, rinnovato i servizi pubblici e contrastato la disoccupazione con mano ferma, quasi autoritaria secondo i suoi molti nemici.

All’apice della popolarità iniziò a farsi strada come leader di una alternativa visione superando lo storico dualismo dei repubblicani e democratici proponendo un ambizioso programma di rinnovamento socioeconomico a favore delle basse classi sociali allontanandosi da Roosevelt che rappresentava il lato più moderato delle riforme. In seguito la presa di distanza si tramutò in scontro diretto, nel quale Long non risparmiò nemmeno violenti epiteti nei confronti dei sostenitori della fazione di Roosevelt, compreso il futuro generale MacArthur. Ci furono tentativi di neutralizzarlo politicamente con indagini su presunti brogli, però tutti conclusi con formula di assoluzione rendendo il ribelle senatore sempre più battagliero e carismatico.

Ad un certo punto fece presente anche la sua linea sulla politica estera, impostata come un deciso isolazionismo anche nei confronti del “giardino di casa” della storica Dottrina Monroe accusando le compagnie petrolifere di aver alimentato la guerra fra il Paraguay e la Bolivia e richiedendo anche il ritiro dalle Filippine nella convinzione che la nazione non avrebbe dovuto perseguire gli scopi dei “poteri forti”. Le sue posizioni sempre più originali ed audaci gli fecero guadagnare sempre più nemici nell’establishment ma non esistono prove di un vero e proprio complotto deciso per la sua eliminazione.

Nel 1934 presentò il programma “Share our Wealth” che ebbe effetti paragonabili ad una bomba atomica direttamente lanciata contro l’amministrazione Roosevelt. In seguito attaccò i giornali accusando di spargere menzogne e nel suo stato fece varare una legge che imponeva ai giornali di pagare una tassa definita da lui “la tassa per le bugie”. Alla fine, nel 1935, decise di correre per le presidenziali previste per il 1936 raccogliendo grande consenso nei suoi viaggi attraverso la Grande Repubblica Stellata mentre in Louisiana la compagnia petrolifera Standard Oil attaccò il senatore supportando anche un associazione dotata di armi facendo alzare la temperatura del rovente clima politico. Scoppiarono subito dopo violenti incidenti con scontri fra i militanti pro Standard Oil e la Guardia Nazionale dello Stato mentre il senatore applicò misure molto rigide per ristabilire la situazione. Ad un certo punto il senatore mise in atto delle pratiche legali per neutralizzare uno dei suoi avversari politici determinando però la reazione di un medico parente dell’indagato, un tale Carl Weiss che pensò di vendicarsi sparandogli all’uscita dal tribunale.

Al funerale parteciparono decine di migliaia di sostenitori che subito denunciarono la possibilità di un vero complotto dietro all’azione individuale di un solitario, tendenza che ci è famigliare poiché sarà anche così decenni dopo a riguardo dell’omicidio di JFK.

Roosevelt, con la morte del suo più pericoloso avversario, vinse le elezioni e saccheggiò il programma di Long facendolo come proprio assimilando i resti della “rivoluzione” inaugurata con lo Share Our Wealth.

Paradossalmente Long divenne ben presto simbolo di radicalismo antidemocratico, di minaccia alle istituzioni, perfino di fascismo in una fortunata opera distopica di Lewis Sinclair “It can happen here” pubblicata proprio poco tempo dopo la morte del senatore. Il romanzo descrive l’avvento di una figura carismatica ed irresistibile che sovverte violentemente le istituzioni e ne diventa il dittatore. Un libro scritto apparentemente per mettere in guardia sui pericoli del fascismo imperante in Europa collegandosi con la parabola del senatore della Louisiana.

Sarà stato davvero un incipiente fenomeno di populismo totalitario? ai posteri l’ardua sentenza.

Le opinioni negli USA sono tuttora divergenti e forse, non per caso, in Europa si conosce così poco del personaggio in questione.

Cosa ci ricorda ora ? una meteora forse per il momento ma cosa ci riserverà davvero il futuro ?

GABRIELE SUMA

mar 27, 2021 - Notizie    5 Comments

Il Fuoco Atomico

Conosciamo tutti Chernobyl, l’inferno provocato dall’errore umano e simbolo dei pericoli dell’Atomo, destinato a diventare il cuore della “Pompei del XX secolo” forse per sempre. Ha colpito l’immaginario di tutti, specie noi europei che abbiamo anche affrontato le conseguenze talvolta oltre il razionale quando si sollevò la nube mortale sui cieli del continente lambendo anche il nostro. Accogliendo bambini e rinunciando al latte avevamo anche rinunciato al nucleare, forse sbagliando, forse no.

Abbiamo dato quindi un nome alle nostre paure nei confronti del terribile fuoco invisibile che può distruggere le nostre cellule e fare a pezzi il nostro codice genetico lasciandoci così poi morire lentamente.

Nel mondo opaco oltrecortina, durante la guerra fredda, ci sono stati però altri incidenti simili che per varie ragioni non superarono la coltre della censura di Stato. Nel cuore del fu “impero sovietico”,così coniato dal presidente degli Stati Uniti Reagan al crepuscolo della Guerra Fredda, si era consumata una tragedia di scala ben peggiore di quella di Chernobyl.

Nel 1948, all’alba della Guerra Fredda, nel paese governato con pugno di ferro dal sempre più inflessibile dittatore georgiano erano stati completati i lavori per il primo reattore di plutonio che era usato per le bombe atomiche presso Majak nell’area amministrativa di Celjabinsk al confine dell’allora repubblica sovietica del Kazakistan. La sede era stata scelta perchè interconnessa con numerosi altri impianti industriali,raffinerie e complessi minerari di alto valore strategico. Il plutonio sarebbe servito poi per la realizzazione della bomba fatta esplodere l’anno successivo in Kazakistan per annunciare al mondo intero della fine del monopolio americano sulle atomiche.

Alcuni anni dopo si moltiplicarono reattori e depositi di materiale radioattivo sul suolo sovietico, perseguendo contemporanamente obiettivi militari e civili considerando la consueta duplice natura della tecnologia sovietica più di quanto avveniva nel mondo capitalista del “Complesso Militare” e non solo durante la guerra fredda. Nel 1957 qualcosa di catastrofico stava per accadere nell’epicentro che prende il nome di Kystym, meglio anche ricordato con il nome di Majak poco distante e uno dei primi siti che hanno dato origine all’atomo sovietico. Si tratta di una zona di cui pochi conoscevano l’esistenza e le carte geografiche prodotte in URSS non riportavano per ragioni militari. I lavoratori erano obbligati a non dire nulla a nessuno del posto dove venivano anche prodotti in serie carri armati. Il governo aveva imposto una rigida censura da legge marziale su ogni forma di attività in corso nonostante i servizi segreti occidentali tramite satelliti e canali informativi ne avessero piena conoscenza pur non divulgando al pubblico. L’equilibrio ecologico era stato ormai irrimedialmente destabilizzato dalla pratica di scaricare scorie chimiche nel sistema idrico e si aggiunge a ciò anche il pessimo stato di sicurezza dei depositi destinati a raccogliere i rifiuti radioattivi. I depositi contenevano decine di tonnellate di materiale nucleare e c’era poco controllo sull’equilibrio delicato del decadimento che produceva aumento di temperatura pericolosamente al limite. Nel 1957, in una fredda giornata di settembre, si era raggiunto il punto di rottura con una improvvisa pressione sulle superfici contenitive tale da trasformare uno dei serbatoi in una gigantesca pentola a pressione. In poco tempo avvenne una terribile esplosione che fece scaraventare in aria il coperchio pur pesante parecchie tonnelate e devastando altri serbatoi. Nell’inferno, si erano liberate nell’atmosfera particelle radioattive nella quantità pari al doppio di quella prodotta da Chernobyl decenni dopo.

Successivamente la nube contaminò un’area vastissima costringendo migliaia di lavoratori con relative famiglie ad evacuare però senza sapere cosa stesse succedendo poiché il governo sovietico ritenne un segreto militare ogni riferimento alle radiazioni. La catastrofe ha segnato a lungo la zona considerando che ancora negli anni ’60 non cresceva più nulla. Pochi anni dopo nelle vicinanze una forte siccità provocò il prosciugamento del lago Karacaj usato per lo smaltimento delle scorie che si erano così sedimentate negli anni sul letto. L’eliminazione della barriera chimica dell’acqua fece liberare nell’atmosfera altre particelle radioattive aggiungendosi alle conseguenze del passato disastro atomico.

Così persero casa mezzo milione di civili mentre il lago praticamente cessò di esistere essendosi riempito di cemento per chiudere la terribile fornace.

Passarono ancora alcuni anni e nella ormai martoriata area, dalle parti di Ekaterinburg ( luogo ben noto per eccidio della famiglia Romanov ), si fuse il reattore della centrale di Belojarsk nel 1977, la stessa centrale è stata pure oggetto di incendi l’anno successivo con diverse vittime. Un disastro immediatamente tenuto segreto.

Purtroppo alla tragedia si unisce così la commedia amara dalle pagine della rivista Life, numero 1985, poco prima del grande dramma che noi tutti conosciamo. Lev Feoktistov al tempo vicedirettore dell’Istituto dell’Energia Atomica dell’URSS affermò orgoglioso:

“nei trent’anni trascorsi dall’apertura della prima centrale nucleare sovietica, non vi è stato un solo caso in cui il personale dell’impianto o i residenti delle vicinanze siano stati messi a rischio: non si è verificato un singolo guasto nel normale funzionamento degli impianti che potesse avere come risultato la contaminazione dell’aria,acqua o suolo. Studi approfonditi condotti in Unione Sovietica hanno dimostrato che le centrali nucleari non influiscono negativamente sulla salute della popolazione”

Oggi nel 2021 ancora il terribile Piede di Elefante giace nei sotterranei della distrutta sede del Reattore Numero Quattro, continuando ad emettere fuoco invisibile che uccide. Al centro della Zona di Esclusione dove centinaia di simboli dell’Uomo si stanno disgregando fra alberi e rovi, nel silenzio che non è neppure rotto dagli animali.

GABRIELE SUMA

gen 13, 2021 - Notizie    5 Comments

Sekigahara

Giappone.

Alberi di ciliegio riempiono ciclicamente ogni anno con i loro petali cadenti immensi spazi naturali ed artificiali di un arcipelago oggi abitato da più di cento milioni di individui.

Un popolo, i giapponesi, che ha versato sangue fratricida per secoli in passato.

Una guerra secolare ha insanguinato ridenti vallate e severe montagne senza risparmio per luoghi sacri e rifugi di uomini di pace. Migliaia di guerrieri si sono dati battaglia recando a sé con orgoglio gli stemmi di grandi e piccole casate disseminate per tutto il territorio dell’Impero di Yamato. L’Imperatore, venerato figlio delle divinità sulla Terra, rimaneva nascosto nell’austero e disadorno Palazzo Imperiale nella antichissima capitale di Kyoto mentre sorgevano e cadevano i clan feudali completamente indipendenti e padroni delle proprie terre.

Siamo nell’anno 1600 dell’età cristiana, quinto anno dell’era Keicho sotto il regno dell’Imperatore Go Yozei.

La Guerra era al suo culmine.

Oda Nobunaga, il cesare dagli occhi a mandorla, era riuscito a unire più della metà dei territori ma era morto assassinato dal suo generale più fidato nel momento del suo massimo trionfo.

I domini, acquisiti con decenni di lotte, si divisero subito fra i sostenitori del clan Hishida legato all’ ambizioso ed abile ex-contadino ( Hideyoshi ) e i sostenitori invece dell’ex-braccio destro di Nobunaga dai nobili natali ( Ieyasu del piccolo ma fiero clan Matsudaira di Mikawa ). Enormi eserciti costituiti da veterani di precedenti campagne iniziavano a radunarsi intorno a diversi signori feudali che si sono scelti la fazione ( Hishida e Tokugawa ). La lealtà era un valore solo sulla carta, tutti aspettavano l’offerta migliore al momento giusto senza vincoli morali, come perfetti discepoli di Machiavelli. I conflitti precedenti erano caratterizzati da stravolgimenti di fronte anche spettacolari determinando esiti imprevedibili per un osservatore occidentale.

Ieyasu non era un uomo d’azione come il brutale Nobunaga e l’astuto Hideyoshi; preferiva ottenere i risultati sfruttando le debolezze umane e le occasioni giuste.

I suoi occhi erano puntati su uno dei più valenti ma anche meno leali generali della fazione avversaria, il nipote del vecchio Hideyoshi, Hideaki Kobayakawa che seguiva l’armata degli Hishida.

Entrambi gli eserciti si incontrarono poi in un area quasi centrale della principale isola Honshu del vasto arcipelago.

Sekigahara

Schiere di contadini armati ( ashigaru ) di lunghe lance a mo’ di picca ( yari ) si fronteggiavano fra le colline. Ieyasu aveva notato la presenza di Hideaki fra le file nemiche e contava sul suo supporto quando richiesto. La strategia militare nipponica in uso all’epoca prevedeva complesse manovre prima dello scontro, ricercando punti deboli come un gioco di scherma. Le connotazioni geografiche del terreno e l’abilità dei rispettivi capi rendevano però la battaglia convulsa, sanguinosa e di esito incerto. Ieyasu osservava spazientito la mancanza di attività da parte di Hideaki che si manteneva in riserva fuori dal fulcro della battaglia. I messaggeri dei Tokugawa e suoi simpatizzanti cercavano di convincerlo senza risultati.

Il Capo dei Tokugawa, temendo la disfatta, aveva deciso di commettere un atto audace, non tipico del suo carattere misurato, quale prendere a colpi di artiglieria gli uomini di Hideaki.

Lo scopo, a costo di vite di potenziali alleati, era smuovere Hideaki anche a costo di perderlo.

Palle di cannone inizivano a cadere e rotolare fra fitte schiere di armati ma Hideaki non dava segno di recepire il messaggio mentre il sole stava raggiungendo il picco di mezza giornata. Ad un certo punto, Hideaki, probabilmente fattosi sicuro della neutralità delle truppe del clan Mori schierate dalle sue parti, ruppe gli indugi girando il fronte contro gli ex-alleati. Il voltafaccia dei Kobayakawa mise in crisi l’intero esercito Ishida cambiando l’esito della battaglia a favore dei Tokugawa fino a quel momento sulla china della disfatta. Dopo poche ore, la vittoria dei Tokugawa fu così schiacciante sul campo che la guerra si volse rapidamente al suo termine. La battaglia sarà decisiva anche per la formazione di una nuova classe sociale costituita da una gerarchia basata sui meriti ricevuti proprio sul campo di quella battaglia.

I Samurai.

Questo vecchio Giappone, cristalizzato per secoli, si frantumerà all’arrivo delle “navi nere” del Commodoro Perry nel 1840 dell’età cristiana ovverosia anno decimo dell’era Tenpo dell’Imperatore Ninko.  Il crollo della classe dei samurai divenne naturale conseguenza del disfacimento dello Shogunato istituito, con il sangue versato nella battaglia, dai Tokugawa vincitori. 

GABRIELE SUMA

set 10, 2020 - Notizie    4 Comments

Torri di pietra e di acciaio

Fra le enormi vasche industriali disseminate ad entrambi i lati della Statale 106 si nasconde un fabbricato di età medievale. Le condizioni strutturali sono critiche nonostante tempestivi interventi negli ultimi anni. Tarantini e viaggiatori solitamente ci passano avanti e la mancanza di adeguate segnalazioni e strutture ha reso un importante sito storico impraticabile per visite turistiche. Il complesso, così come appare oggi, risale ai tempi della dominazione normanna. I normanni erano i vichinghi oggi famosi per molte recenti produzioni cinematografiche e televisive. Si trattava di un luogo di sosta e riposo per pellegrini. Il santuario prende oggi il nome di S.Maria della Giustizia sostituendo la precedente denominazione di S.Maria del Mare.

l’Illustre storico del ’600 Ambrogio Merodio, autore di un ricco compendio storiografico sulla nostra città, così scrisse:

“Comprese Boemondo esser venuta la sua ora allorquando la crociata mise in moto la cristianità romana, ed il nipote Tancredi e il fiore degli Altavilla gli furono a fianco. Al loro seguito si affollarono gli italiani che si fregiarono col segno della croce ( … ) Così al Duce normanno fu dato di passare in rassegna un esercito tanto poderoso, da poter reggere al raffronto con quello allestito da Raimondo di Tolosa e da Goffredo di Buglione ( …. ).

Taranto, durante il periodo delle crociate, rigurcitò sempre di combattenti, sia che essi partissero per la Palestina,sia che tornassero da Terra Santa,sia che nell’attesa degli imbarchi i crocesegnati fossero costretti a sostare nelle nostre terre. Conseguentemente l’Ospizio di Santa Maria del Mare ebbe nell’epoca delle crociate destinazione alquanto differente…quivi le refrigeranti acque del Tara che snoda il suo corso fra quella riarsa campagna e che in ogni tempo era in grado di offrirsi ai bisogni delle ciurme e dei combattenti.

A sì intensa vita, a tanto frastuono d’armi e d’armati,in quegli androni ove echeggiò il fatidico grido: Deus Vult! E di dove a suon di corni ed a sciorinate bandiere si partiva incontro alle carovane per convogliarle sicure alla meta, più tardi seguì la serena quiete del chiostro”

Con immaginazione potremmo vedere negli interni vuoti e spogli l’andirivieni di uomini bardati di stoffe multicolori e nei cortili carri e depositi pieni di armi,vettovaglie e necessità varie di un lungo viaggio.

Si tratta della famosa prima crociata del 1096 e i principi normanni ebbero un ruolo decisivo nell’impresa che si concluse con la presa di Gerusalemme nel 1099. Il Principe Boemondo di Taranto non aveva perso la sua indole vichinga e si era unito nella spedizione per conquistare non solo la benevolenza divina ma anche una nuova corona quale poi era quella di Antiochia. Il signore di Taranto gettò le basi del Principato di Antiochia che sarebbe rimasto uno dei regni crociati più potenti per quasi un secolo.

Raimondo, anche egli di sangue normanno, litigò ferocemente con Boemondo per Antiochia e fu protagonista di molti complotti ed episodi militari che minarono la coesione dell’esercito crociato e conquistò con le armi la signoria su Tripoli in Libano.

L’altro principe normanno,Goffredo di Buglione, partecipando alla spedizione conquistò il titolo di Difensore del Santo Sepolcro di Gerusalemme combattendo a lungo sia contro gli egiziani della dinastia fatimide sia contro altri signori crociati determinati a guadagnarsi indipendenza da Gerusalemme.

La Storia è passata tumultuosamente attraverso queste bianche pareti senza lasciare oggi segni riconoscibili. Il sito, già vuoto verso la fine del periodo considerato, nel 1194 venne affidato alle cure dell’eremita Cataldo Ferlizio che, secondo le cronache citate dal Monsignor Giuseppe Blandamura, alto membro del clero tarantino del XIX secolo, venne ucciso poi da uno schiavo musulmano ( al tempo la schiavitù era largamente praticata nel Mediterraneo ). In seguito all’omicidio, secondo le cronache, al santuario fu dato il nome di Santa Maria della Giustizia. Indipendentemente dalla veridicità storica dell’episodio, l’impianto non subì variazioni finendo ben presto dimenticato dalla maggioranza dei tarantini.

Rovine, come Blandamura disse: desolanti ruderi e le sbiadite memorie, lentamente hanno assistito alle radicali trasformazioni che coinvolsero la città dei due mari. Ciminiere annerite e brutture in cemento circondano tuttora il vecchio ospizio mentre il ventesimo secolo,con i suoi ritmi impensabili per chi dormì fra quelle mura, corre davanti senza sosta e forse senza memoria verso un futuro che rischia,oggi, di essere invece eterno presente.

GABRIELE SUMA

mag 18, 2020 - Notizie    6 Comments

Draghi e Katane

Sulla data di inizio della seconda guerra mondiale molto si è discusso prevalentemente focalizzandosi sugli eventi europei per la semplice ragione che gran parte della produzione storiografica era di provenienza occidentale, europea o anglosassone escludendo, a torto e a ragione, l’equivalente di origine sovietica e non occidentale. La prevalenza del teatro europeo anche per eventi di portata globale rappresentava bene anche la percezione dell’occidente come centro e motore della Storia.

Una constatazione di fatto della storica egemonia culturale,militare,ideologica venutasi a creare inesorabilmente oltre i confini geografici per quasi mezzo millennio.

Oggi la tendenza appare essere di senso inverso; stiamo assistendo all’apparente ritirata e rinchiudersi dell’Occidente in tutti i suoi campi ,dalla tecnologia alla forza militare. Gli osservatori ed analisti valutano l’emergere della Cina come una “risposta” all’Occidente e la propaganda di Pechino, difatti, punta molto su una sorta di “revanscismo” nella presunzione di una percepita centralità perduta in passato. Il concetto di un “impero perduto” per incompetenza e corruzione dell’indebolito potere imperiale e per arroganza e superiorità militare dello straniero si sposa bene con il disegno nazionalista del governo autoritario cinese, determinato ad acquistare una posizione di egemonia presentandosi come modello alternativo all’Occidente sul palcoscenico mondiale.

Dovremmo preoccuparci ?

a mio parere la Storia non smette di insegnare per quanto poi le lezioni che se ne ricavano non arrivano ad influenzare gli eventi come se in qualche maniera il ripetersi degli schemi avvenga indipendentemente dalla consapevolezza acquisita.

La Cina, guidata da un oligarchia tecnocratica e legata alle forze armate, ha bruciato decenni di evoluzione tecnologica ed economica con pugno di ferro e pianificazione dall’alto guadagnando potenza militare e strumenti politici di portata globale. Gli USA hanno fornito il “carbone” al motore cinese con aiuti e finanziamenti negli ultimi anni della Guerra Fredda a scopo di allontanare l’Unione Sovietica dall’Asia senza curarsi delle conseguenze anche sui propri interessi a lungo termine.

Questo insieme di fattori può far richiamare alla mente l’ascesa altrettanto rapida del Giappone al momento della sua forzata apertura alle “navi nere” statunitensi fino alla sua improvvisa corsa alla conquista di terre e risorse per alimentare e mantenere lo sviluppo innescato a spese dei vicini con le buone e con le cattive maniere.

Si ritiene che nel 1937 la seconda guerra mondiale fosse già scoppiata in quanto Tokyo, confidente nella propria potenza, invase la Cina per aggregarla al proprio impero coloniale ( Manciuria, Taiwan, Corea, ex colonie tedesche del Pacifico ). L’aggressione giapponese suscitò indignazione mondiale per la efferatezza nei confronti della popolazione e timori geopolitici da parte di molteplici attori dell’arena internazionale. La Germania hitleriana fornì alla Cina armamenti ed equipaggiamenti prima che Tokyo accettasse l’alleanza proposta da Berlino mentre gli USA e Impero Britannico, dapprima sostenitori dell’imperialismo nipponico in chiave anti-russa, condannarono le aggressioni evitando però il confronto diretto.

Le ragioni dell’aggressività del Sol Levante risiedevano nelle necessità materiali di risorse necessarie e nello sviluppo economico di un sistema industriale sviluppato in un territorio povero,sia nell’ideologia neoshintoista ed imperialista che animava l’intera popolazione, convinta di una sacra missione e disposta ad ogni sacrificio per essa. Il fanatismo collettivo,unito al diffuso sentimento razzista ( parzialmente ancora presente nell’attuale società nipponica, tra l’altro ) è stato uno dei fattori della ferocia quasi incomprensibile del modo di pensare ed agire dei giapponesi durante tutta la guerra.

Era sempre stato sempre così il Giappone ? sì e no a dire il vero. Effettivamente il Giappone aveva intrapreso in passato due guerre di conquista particolarmente devastanti nei confronti della Corea senza dimenticare una più antica impresa ammantata dal mito alle origini stesse dell’Impero fondato dal Clan Yamato, tuttora la Casa Imperiale, forse la più antica dinastia reale vivente. Le avventure bellicose hanno contrassegnato i momenti in cui l’articolato arcipelago di isole veniva riunito con la forza delle armi, come “valvole di sfogo” per gli enormi eserciti rimasti senza lavoro e senza possibilità di reimpiego della vita civile ritenuta degradante, quasi insultante.

Così come Hideyoshi, fondatore dello shogunato pur non diventandone mai Shogun ( titolo che verrà attribuito solo al suo più caro alleato in vita sua, dopo un altra guerra civile ) scatenò i samurai disoccupati alla conquista della Corea nel 1592 venendone poi sconfitto, così i clan filo-imperiali, una volta abbattuto lo shogunato nella Guerra Boshin ( 1868 ), ritennero di dover imitare le potenze coloniali del XIX secolo cercando in Asia spazi non ancora raggiunti da altre potenze a danni di paesi vicini senza nemmeno la scusa del proselitismo religioso e propositi di civilizzazione. Tutto questo accadeva per singolari circostanze scaturite da un sistema politico dominato dalle forze armate rappresentanti direttamente l’autorità dell’Imperatore.

L’Imperatore era stato fatto semidivino proprio nell’occasione del trasferimento del Trono dall’antica capitale Kyoto alla ex capitale dello Shogunato a Tokyo ( la vecchia Edo ). Da prendere in considerazione il fortissimo carattere simbolico della demolizione dell’immenso castello degli Shogun con conseguente installazione, sulle fondamenta risparmiate, del Palazzo Imperiale tuttora esistente al centro esatto della attuale tentacolare megalopoli nipponica.

L’Esercito, modernizzato con lo studio dei modelli europei, si proponeva di diventare strumento, rappresentando l’Imperatore, dei clan vincitori ( fra tutti i potenti Satsuma ) che rapidamente si presentarono al mondo nella veste di dinastie di industriali ed impresari. Le concentrazioni dei gruppi dominanti della nascente industria disprezzavano però i meccanismi del commercio moderno per pregiudizi ed abitudini secolari preferendo la via alla conquista come soluzione alla povertà di materie prime nel territorio. Cosi si era arrivati a quel lungo e doloroso processo di colonizzazione della Corea e della Manciuria.

Quando la Grande Guerra disintegrò l’assetto europeo, il Giappone non perse occasione di espandere il suo impero anche nel Pacifico inglobando le colonie tedesche senza sparare quasi un colpo, avvicinandosi molto alle altre colonie occidentali, in particolare Filippine passate ad essere un protettorato statunitense in seguito alla guerra ispano-americana del 1898. Non è un caso che proprio negli anni fra la fine della Grande Guerra e l’Ultima Guerra gli americani ,prevedendo il conflitto, avevano messo in cantiere il famoso Piano Orange basato su elementi chiave della condotta strategica effettivamente applicata contro il Giappone durante la seconda guerra mondiale.

Quando Francia ed Olanda crollarono sotto i panzer germanici nel 1940, l’Indocina francese, sotto gestione di Vichy, scivolò nell’orbita di Tokyo impegnata a preparare una vastissima operazione che, come un disastro meteorologico improvviso, avrebbe dovuto travolgere tutto il resto dell’Asia meridionale. Un simile uragano di fuoco era dovuto alla impellente necessità di prelevare petrolio e materie prime per sostenere la propria industria anche colpita duramente dalle sanzioni inflitte dagli USA per la guerra contro la Cina che si trascinava sin dal lontano 1937.

La guerra con gli USA scoppiò quasi come per “costrizione” considerando che i vertici politici di Tokyo, in diverso grado, erano consapevoli della superiorità statunitense come è stato dimostrato dalla febbrile attività diplomatica poco prima di Pearl Harbour per una risposta alla richiesta americana di ritiro dal Sud-Est Asiatico e dalla Repubblica Cinese allora guidata dal generalissimo Chiang Kai Shek.

In tempi attuali può far riflettere la similitudine con lo scenario odierno della militarizzazione cinese in corso da anni nel Mar Cinese Meridionale per implicazioni geopolitiche per l’economia cinese dipendente ancora molto dall’importazione di petrolio e altre forme di energia da molteplici fonti fuori dal proprio territorio.

Per quanto non si ebbero dubbi sulla legittimità delle campagne belliche in Asia, taluni ambienti della Marina Giapponese erano molto preoccupati della grandezza industriale della Grande Repubblica Stellata accertata da addetti militari e agenti diplomatici. l’Ammiraglio Tomosaburo Kato, spietato nelle repressioni contro la dissidenza, rappresentando la Marina e la Nazione alla celebre Conferenza Navale di Washington del 1922, tentò di ritardare la guerra proponendo migliore bilanciamento del numero delle corazzate fra le maggiori marine. Un impegno fortemente criticato dai falchi della Marina e dell’Esercito che fecero di tutto per far fallire ulteriori negoziati temendo di far perdere all’Impero nipponico le conquiste in Cina e in Corea. La febbre nazionalista aveva coinvolto la Marina a tal punto che già poco prima di uscire dal Trattato di Washington aveva  ordinato la costruzione della supercorazzata Yamato nei cantieri di Kure.

Il contrasto fra Esercito e Marina si potrebbe anche spiegare con la tensione interna dovuta allo squilibrio economico ingenerato dalla crisi della produzione agricola conseguente all’abbandono dei campi verso le città durante la fase di industrializzazione, che a sua volta necessitava di costante afflusso di materie prime ottenibili solo con importazione.Ciò mentre la Corea fin dal 1919 restava indocile per non parlare delle difficoltà in Cina. Inoltre c’è stato un breve periodo in cui a partire dall’adozione del suffragio universale maschile nel 1928 furono adottati strumenti repressivi in nome dell’ultranazionalismo conservatore sotto la bandiera dell’ideologo Ikki Kita che sognava una Nazione fondata sullo “spirito” alla maniera simile dell’Hitleriano motto di un popolo,una nazione,un Capo. Il moderato primo ministro Hamaguchi Osachi si trovò ad affrontare la Grande Crisi del ’29 e l’ostilità dell’Esercito che organizzò un attentato contro la sua persona.

La situazione peggiorò negli anni successivi in seguito ai crescenti disordini in Manciuria e Corea, nei quali l’Esercito agì senza autorizzazione dell’Imperatore ( Hirohito ). Si trattò di quel convulso periodo in cui l”Ultimo Imperatore” Pou Yi, reso celebre dall’opera filmica di Bernardo Bertolucci ( 1987 ) , cacciato dalla nascente Repubblica Cinese divenne il sovrano fantoccio della Manciuria sotto protezione giapponese. Un periodo di caos politico anche per il Giappone stesso che diventò teatro di attentati di ministri e alti dirigenti del Governo da parte dei nazionalisti più fanatici fino alla morte del primo ministro Inukai Tsuyoshi,ucciso in un attentato, nel 1932, anno dell’inizio del vero e proprio fascismo nella terra del Sol Levante.

Quando gli apparecchi lanciati dalle portaerei bruciarono le corazzate americane a Pearl Harbour il 7 dicembre 1941, buona parte dell’arcipelago indonesiano entrò forzatamente a far parte dell’ormai vastissimo impero di Yamato partendo sopratutto dall’isola di Hainan sottratta alla Cina nella primavera del 1939. L’affondamento spettacolare della corazzata Wales e incrociatore Repulse della Marina Imperiale Britannica sotto le bombe aeree furono il più significativo simbolo di quella inesorabile tempesta di ferro e fuoco come aveva promesso Yamamoto all’allora Primo Ministro Konoe poco prima dello scoppio della guerra.

I giapponesi invasero territori statunitensi e britannici fino alle porte dell’Australia travolgendo l’opposizione sempre più ostinata fino al 1942 quando la tremenda disfatta nella grande battaglia delle Midway nel giugno dello stesso anno pose fine alla potenza navale della Marina Imperiale giapponese.

Mentre la Thailandia diventava alleata dell’Impero, i giapponesi, tramite complesse quanto spettacolari manovre da manuale, cacciarono i britannici dalla Birmania nella primavera del 1942 restandone padroni incontrastati per lungo tempo.

La lunga occupazione di buona parte della Birmania e del resto della penisola durò per quasi tutto il resto della guerra con conseguenze poi importanti per lo sviluppo dell’ideologia nazionalista locale che caratterizzerà i diversi processi del cosiddetto periodo di “decolonizzazione” post-bellica ponendo fine all’epoca degli imperi coloniali usciti apparentemente vincitori dal conflitto.

La linea del fronte nel sud-est asiatico affondava fra intricate giungle e montagne inaccessibili e mutava costantemente forma a causa dell’inedito modo di fare la guerra imposta dalle particolari condizioni ambientali. I monsoni e l’assenza di strade rendevano impossibili manovre spettacolari di massa tipo guerra europea ma i giapponesi si adattarono molto più velocemente degli inglesi riuscendo anche a dare parecchio filo da torcere pur con crescenti difficoltà in seguito alla catastrofe di Midway.

Grossomodo ci sono stati due differenti dinamiche degli eventi militari che hanno sconvolto la Birmania a partire sopratutto dal ’43, il fronte principale occidentale verso le porte dell’India e i confini settentrionali in direzione Cina.

Gli inglesi lasciarono dietro le linee nemiche nuclei di guerriglia costituiti da non veri e propri professionisti ma entusiasti volontari, conosciuti con il termine di “chindit” tratto dal termine “chinthe” nome di un leggendario grifone birmano. Questi gruppi si impegnarono molto in attacchi di disturbo guadagnandosi prestigio e fama, con effetti sul morale degli alleati sul fronte. La guerriglia,gestita con notevole successo da Charles Orde Wingate già conosciuto per essere stato consulente militare delle forze dell’Abissinia dell’imperatore Hailè Selassiè contro l’Italia nel 1936, era destinata a mutare l’esito stesso della guerra in quelle latitudini.

Gli alleati ebbero buon gioco grazie agli enormi vantaggi del virtualmente infinito “Arsenale della Vittoria” che vomitava a getto continuo materiali e mezzi di ogni genere. I giapponesi, invece, erano avviati al lento declino pur conservando nei territori birmani occupati una piccola ma sempre agguerrita forza costituita da veterani per quanto sempre più allo stremo per la riduzione dei rifornimenti e rinforzi dovuta ai rovesci sempre più gravi nel fronte del pacifico.

Gli inglesi, ancora legati a dottrine classiche, tentarono una grande offensiva convenzionale verso la fine dell’anno ’43 per sfondare la “porta di ingresso” per il Mandalay quale l’area di Akyab. L’esito fu subito disastroso nonostante l’abbondante messa a disposizione di forze e la battaglia assunse presto i famigliari tratti delle “Somme” della Grande Guerra: attacchi a testa bassa, perdite pesanti, insignificanti risultati. I giapponesi tennero saldamente in mano l’intera situazione con le sole forze disponibili richiedendo, solo dopo diversi giorni, il rinforzo di una sola divisione comandata da Takeshi Koga che cambiò le carte in tavola travolgendo e mettendo quasi in rotta gli anglo-indiani, pur superiori di numero ma divisi dai fiumi ed asperità del terreno. Una manovra quasi di stile napoleonico che costò agli alleati ingenti perdite materiali e migliaia di vittime fra morti e feriti.

Un risultato decisamente eclatante, considerando le difficili condizioni in cui i giapponesi a quel momento si trovavano suscitando negli alleati drastiche riconsiderazioni sulle proprie tattiche e sull’organizzazione.

Immediata conseguenza fu una serie di “cadute di teste” nel comando anglo-indiano spianando la strada all’ambizioso quanto spietato generale William Slim che aveva guidato la ritirata dalla Birmania di fronte all’iniziale invasione nipponica e represso con decisione rivolte nel Bengala da parte delle popolazioni locali colpite da privazioni causate dalla guerra in corso.

I rovesci subiti avevano scosso Churchill che propose, come suo solito, audaci concetti come la sostituzione degli indiani con “commandos” per “forgiare” un nuovo esercito indiano con il loro esempio. Per questo motivo, in seguito ad intensi dibattiti fu scelto Lord Claude Auchinleck che diventò il “padre” dei moderni gurkha che vennero inseriti in forza standard di un battaglione a tutte le brigate anglo-indiane.

Wingate e Slim, in modi diversi, avevano riorganizzato la possente arma aerea per il ruolo di sostegno ravvicinato sia nelle battaglie che nei rifornimenti per prevenire le consuete strategie di avvolgimento dei giapponesi.

Una strategia non nuova perché già contemplata dai tedeschi sul fronte russo pur su scala assai inferiore ( le truppe assedianti Stalingrado furono rifornite tramite via aerea ).

Solitamente gli inglesi trascuravano i bisogni e le condizioni psico-fisiche della truppa ( al contrario degli americani e di altri alleati occidentali in genere ) ma sul fronte indiano si è assistito a forte impegno per assistenza sanitaria ed alimentare per migliorare il morale e prevenire il malcontento coltivato da propaganda nemica e ridurre gli effetti devastanti della malaria e altre malattie particolarmente virulente in quella regione.

Le disfatte subite sono state dunque di lezione preziosa e ben presto gli alunni ( gli alleati ) impararono dai propri errori finendo per battere i maestri ( i giapponesi, o meglio il “napoleone birmano” Koga ) .

I giapponesi, logorati da persistenti incursioni limitate, ritennero di anticipare gli alleati con una vasta ed articolata operazione offensiva allo scopo di ottenere quella “battaglia decisiva” che tanto Tokyo ricercava per ottenere condizioni migliori per un eventuale negoziato.

L’offensiva aveva come obiettivo principale la distruzione delle forze anglo-indiane nella cruciale area di Imphal attualmente in territorio indiano, nella regione del Manipur fra il Bangladesh e l’attuale Myanmar ( la vecchia Birmania ). L’intera operazione fu affidata sul campo a Motoso Yanagida al comando di una divisione praticamente contro tutto l’intero IV corpo d’armata anglo-indiano di presidio dell’area. Contemporaneamente a ciò i giapponesi pensarono di ingannare gli alleati con una “finta” nell’Arakan ( una regione del Bengala orientale, a sud del Bangladesh ) per allontanare dal vero bersaglio ingenti forze nemiche. Il piano studiato dal generale Renya Mutaguchi, famoso per la sua presa di Singapore all’inizio della guerra, era ambizioso e prevedeva un azione coordinata di ben tre divisioni diverse suscitando però molte perplessità nei vertici militari nipponici in Birmania, ben consci dell’ormai incontrastato dominio aereo alleato. Si trattava di un audace manovra, insolita per gli standard nipponici, con colonne di carri armati e blindati nonostante il carattere impervio del terreno caratterizzato da montagne,risaie, paludi entro i termini previsti di quasi tre settimane.

Audace piano già reso quasi suicida per il cattivissimo stato in cui si trovavano due su le tre divisioni previste per l’operazione e senza quasi alcuna copertura aerea, contrariamente agli standard tedeschi dell’epoca, basati proprio sul principio del controllo del cielo per il successo.

Gli inglesi avevano in zona Imphal diverse forze,fra cui 2 brigate corazzate indiane, il nerbo della futura arma corazzata indiana moderna ( pur con comandanti inglesi ), costituite da carri armati di produzione americana e, disponibili come eventuali rinforzi, tre battaglioni gurkha e circa una dozzina di regolari indiani. A conti fatti, i giapponesi attaccarono in inferiorità numerica, senza supporto aereo e malamente equipaggiati contro difensori ben assestati e, con tutta probabilità, già ben informati sulle intenzioni considerando che erano già studiate complesse contromisure per neutralizzare l’azione nipponica, facendo massiccio uso dell’arma aerea.

L’intero piano giapponese era già andato in crisi quando un’intera divisione indiana riuscì ad evitare l’accerchiamento e i carri armati alleati risultarono pure impenetrabili quasi ai colpi. Gli alleati evitarono la battaglia per logorare i giapponesi attraverso il territorio. Da notare anche che la strategia dell’Arakan si risolse in un fallimento poiché gli alleati trasferirono numerosi rinforzi ( parecchi indiani ) provenienti dalla regione via aerea annullando i terribili sforzi degli attaccanti. Nella fase più violenta della battaglia gli alleati erano in netta superiorità numerica e la versatile, quanto modernissima, strategia difensiva diede poi la vittoria alla parte alleata.

I giapponesi si privarono di uno dei loro vantaggi quale la giungla e l’asperità del terreno che garantì loro la lunga tenuta della Birmania cercando battaglia in terreni sempre più aperti del tradizionale paesaggio indiano con tutte le conseguenze del caso quando il cielo è sotto controllo avversario. La situazione divenne poi catastrofica per i giapponesi che si trovarono ormai senza scorte, munizioni e cibo e la guerriglia chindit, sempre attiva, tagliava i rifornimenti che venivano passati a dorso di mulo lungo sentieri aspri di montagna. Intanto la malaria stava falcidiando senza distinzione di grado fra i ranghi di entrambi gli eserciti contrapposti. Iniziò così la lunga,terribile, “anabasi” dell’esercito giapponese battuta in ritirata, in condizioni ancora peggiori rispetto alla famosa vicenda narrata dallo storico greco Senofonte quasi duemila anni prima.

Nella ritirata fu completamente distrutta un intera divisione fra le tre scese in campo durante l’operazione e con essa l’intera 15° armata giapponese della Birmania non si riprese più.

I giapponesi si impelagarono nella lotta contro gli uomini comandati dall’instancabile Wingate fino a quando egli morì improvvisamente in un incidente aereo durante i combattimenti nel ’44. Ormai la Birmania era sempre più campo di battaglia con gli alleati in avanzata e i giapponesi in crescente difficoltà. I gurkha e le unità chindit ben presto indebolirono i giapponesi in tutta la Birmania settentrionale a tutto vantaggio dell’importante canale di rifornimenti ed aiuti alleati per la Cina di Chiang Kai Sheki impegnata a respingere sempre più furibondi attacchi nipponici proprio in quel periodo con conseguenze decisive per le sorti della guerra in Asia.

I giapponesi si batterono ferocemente nei pressi di Mogaung, nel nord della Birmania, da tempo nel mirino degli alleati determinati a garantire l’afflusso di aiuti per la Cina gettando nella fornace anche i celebri guerriglieri di Wingate. A questa battaglia parteciparono anche parecchi cinesi del Kuomintang. Le perdite furono terribili da entrambe le parti.

I giapponesi iniziavano a subire le conseguenze del collasso dell’intera arma aerea imperiale giapponese decimata dagli sterili combattimenti sul fronte delle Salomone fra il ’42 e il ’43. Gli angloamericani stavano invece anche iniziando a superare tecnologicamente, non solo materialmente, i leggendari Zero dapprima temuti.

l’intero fronte della Birmania era definitivamente crollato e la guerra poteva anche considerarsi virtualmente conclusa poiché in seguito si trattò di una interminabile e sanguinosissima operazione di rastrellamento ed inseguimento dei giapponesi che batterono in ritirata verso il sud della Birmania.

La fine dell’Asia agli asiatici era iniziata…ora la Storia sembra ritornare sui suoi passi, stavolta non più il Sol Levante ma artigli del Dragone, tiranni di una volta,tiranni di oggi uniti simbolicamente dal motto “Asia agli asiatici” sotto il giogo dell’imperatore di turno, dagli occhi a mandorla. Le ragioni ? sempre le stesse, fame di energia per sopravvivere al proprio sistema che viene pompato e sostenuto sempre dai soliti: i militari.

Le foto in bianco e nero resteranno solo nei libri oppure saranno accompagnate da immagini simili, con armi diverse ma con medesimo sangue sparso?

Si eviterà di cadere nell’abisso se si troverà modo di contenere il Dragone nonostante la crisi economica,il coronavirus e la democrazia minacciata e vilipesa ?

GABRIELE SUMA

mar 11, 2020 - Notizie    13 Comments

Nilo e Magia

Fin da quando l’Uomo ha acquisito il potere del fuoco nella notte dei tempi, la magia lo ha accompagnato nella costruzione della civiltà. Le paure per l’ignoto, le incertezze per il futuro e le continue minacce venivano domate ed allontanate grazie ad interventi di forze soprannaturali, evocate da uomini e donne che donarono la loro vita ad esse sia in senso figurato che materiale. Millenni hanno poi finito per separare la magia dalla religione pur essendo fra loro costantemente legate da rituali e funzioni simili. La principale cesura di divisione fu il consolidarsi del potere dei sacerdoti, discendenti degli sciamani tribali nel momento stesso in cui si stabilirono in modo permanente gli insediamenti.

L’antropomorfizzazione delle forze soprannaturali e la nascita della vita urbana fecero sì che la Natura diventasse così un’ombra dietro ai simboli del potere. Il bisogno degli uomini di esorcizzare le paure determinò la trasformazione delle forze naturali in qualcosa di indefinito ma carico di potenza paragonabile al divino. Le forze demoniache però non erano malvagie, anzi piuttosto fondamentali per supportare gli affanni della vita quotidiana dei cittadini, tutti impegnati nel mantenere in vita la propria società.

Quasi tremila anni fa, sulle rive del Nilo, culla della civiltà delle Piramidi presero forma delle pratiche a difesa di singoli individui all’interno della comunità sviluppatesi lungo il nastro liquido e profondo scaturito dalle profondità del continente africano. Un complesso di quotidiani rituali propiziatori senza una vera casta sacerdotale, quindi non riconosciuti dal potere ma messi in atto con la medesima intensità con cui venerano le divinità nascoste dietro il sacerdozio che si interponeva in mezzo fra essi e i fedeli come una barriera.

Si rinvengono fra le millenarie sabbie testimonianze sul culto di Imhotep.

Intorno ad esso aleggiano leggende, le stesse che avvolgono nella nebbia della Storia anche molti culti simili del Mediterraneo, in particolare riguardo Dionisio. Imhotep inizia ad essere citato per la prima volta sotto il regno di Tosorthros ( Zoser ), per il quale fu costruito l’antenato delle moderne ciclopiche piramidi che tutti conosciamo. Dalle testimonianze lasciate da testi ricchi di geroglifici si riteneva fosse un individuo eccezionale, mai morto ma piuttosto elevato al cielo ( vi ricorda qualcosa ? ). I testi lo descrivono come formidabile architetto ma anche esperto medico e nello stesso tempo sciamano, capace di dominare le leggi della Natura con il proprio volere.

Le sue immense capacità permisero la costruzione del leggendario Santuario di Memphis che divenne il primo laboratorio e centro di assistenza medica della Storia. I greci identificarono lui come pari ad Asclepio,divinità delle arti mediche.  Egli trasmetteva ai suoi discepoli il potere della guarigione attraverso la dea Sekhmet.  Fra gli interni del Santuario era venerata la donna dalla testa di un leone, capace di determinare chi doveva sopravvivere sia in pace che in guerra, per un coccodrillo oppure per spada. Imhotep era il suo canale, il mago mortale nel corpo ma immortale nel destino.

Dalle leggende di Memphis si moltiplicarono pratiche divinatorie e propiziatorie per andare oltre la linea della vita, a contatto con i morti tramite i negromanti ed oracoli.  Esistono numerose tracce documentate di suppliche e richieste nei loro confronti, in particolare sotto il regno di Ramses III ( ventesima dinastia, circa 1200 anni avanti Cristo ). Si trattava di “lettere per i morti”, una vasta produzione di documenti che attestano la diffusa credenza nella capacità di governare forze misteriose laddove il sacerdozio ufficiale non entrava in merito,preso com’era per bisogni più urgenti dell’amministrazione dello Stato.

Le forze entravano in oggetti appositi dandone quel potere definito Heka che potrebbe richiamare alla mente l’attuale credenza nipponica nella essenza divina negli oggetti ancora oggi nel pieno dell’era della tecnologia.

Alle lettere ai morti si è ispirato poi Lovecraft che, con tipico piglio di un genio, ha reinterpretato la vasta letteratura negromantica in qualcosa di diverso ma nello stesso tempo così mirabilmente affine all’originale senso di mistero e sentimento reverenziale che la caratterizzava. Dalle pagine moderne di un incompreso, al suo tempo, creatore di abissi e feroci divinità era nato il celebre Necronomicon.  Un colpo mirabile di fantasia trasformatosi in qualcosa di autentico e vivo ben oltre la penna del suo autore plasmando e infestando la memoria collettiva. Il celebre Libro dei Morti, rilegato di pelle umana e scritto da un arabo impazzito, ancora è custodito nella tenebrosa Arkham che, non casualmente, è casa di una autentica divinità moderna dell’Immaginario quale Batman, così come Imhotep “visse” nella memoria del suo tempo fra le pieghe del tempo vergate da geroglifici.

GABRIELE SUMA 

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