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ott 15, 2014 - Notizie    2 Comments

I Guerrieri del Sol Levante

In Giappone lo scudo, come protezione individuale, è stato adottato nei primissimi secoli di civilizzazione dell’arcipelago nipponico in un epoxa denominata Yajoi dal nome di un area archeologica presente in un area di Tokyo. Le comunità dell’epoca erano organizzate in tribù e clan e i guerrieri combattevano con lancia ed arco e anche scudi rettangolari che coprivano gran parte del corpo. Gli scudi erano essenziali in un’epoca dove le spade non erano comuni e talvolta di uso più per le funzioni religiose e sociali che per la guerra vera e propria e i metalli una risorsa rara. I guerrieri preferivano di gran lunga l’arco che divenne ben presto un elemento culturale profondamente giapponese e ancora oggi potente simbolo in molte occasioni. Lo scudo verrà gradualmente abbandonato fino a scomparire del tutto nei secoli successivi con eccezione di protezioni mobili per tiratori negli assedi fino alla fine del XVII secolo. Le ragioni principali della breve vita dello scudo risiedono nella scarsità di materie prime e nello  sviluppo di una casta guerriera con caratteristiche aristocratiche simili a quelle riscontrabili in altre società arcaiche come gli achei dell’Iliade. Dopo le guerre tribali e l’avvento dei clans in seguito alle varie guerre contro gli Emishi ( popolazione nativa dell’Hokkaido e parte dell’Honshu settentrionale ) i giapponesi avevano determinato le linee fondamentali di una struttura fortemente gerarchizzata e stratificata che sarà la base della futura classe dei samurai. Nel periodo delle colonizzazioni e conquiste dell’arcipelago il Clan Yamato emerse come la prima e l’unica dinastia imperiale che tuttora è sul Trono del Crisantemo. In questo periodo gli Yamato avevano raccolto intorno a sè tutti gli altri clan maggiori e minori assumendosi la guida degli eserciti ancora caratterizzati da masse di coscritti contro gli Emishi. L’andamento del conflitto e la natura peculiare del terreno obbligava la costituzione di insediamenti militari fissi rendendo gli eserciti sempre meno controllabili dalla Corte Imperiale. La spietatezza dei nemici e la durezza delle condizioni ambientali comportavano la riduzione della consistenza degli eserciti che sempre più si costituivano di professionisti della guerra in grado di pacificare le terre conquistate. L’espansione procedeva nella direzione nord lungo tutta l’isola di Honshu ma nel frattempo i giapponesi ebbero anche occasione di apprendere le arti belliche di origine coreana e cinese. Il Giappone nel V secolo d.c stabilì un controllo su un area della penisola coreana denominata Minama da fonti storiche nipponiche. La Corea era allora suddivisa in tre regni ( Silla,Baekje,Goguryeo ) e il regno di Silla era il più forte ed espansionista e ben presto i giapponesi persero Minama da parte di Silla. I coreani inflissero ai nipponici la più grande disfatta navale della storia giapponese nel 663 d.c ( la battaglia di Baekcheon ). I giapponesi appresero,per l’urgenza del momento, le tecniche costruttive dei coreani quali le fortezze in pietra che si moltiplicarono lungo le coste dell’Isola di Kyushu ( l’isola meridionale dell’arcipelago più vicina alla Corea ). Le tecniche saranno successvamente abbandonate per poi essere recuperate durante i tentativi di invasione da parte dei mongoli dal 1274 al 1281. Le fortezze in pietra erano però un elemento estraneo alla cultura giapponese per la natura sismica del territorio e per il carattere spiccatamente offensivo delle tecniche di combattimento e delle dottrine ufficiali ( famoso il caso del Clan Takeda che considerava il proprio esercito come fortezza per difendere il territorio durante le guerre civili del XVI secolo ). Le fortezze in pietra appariranno, dopo molti secoli dall’ultima invasione mongola, negli ultimi anni del periodo conosciuto come Sengoku Jidai ( XVI secolo ) con il suggello della realizzazione del più grande castello in pietra da parte del primo unificatore del Giappone Oda Nobunaga ( il castello di Azuchi verrà tuttavia distrutto subito dopo la morte di Nobunaga ). I successivi castelli verranno costrouiti per tutto il periodo dello Shogunato Tokugawa ma del tutto privi di difese militari vere e proprie a parte la gigantesca città-fortezza di Edo che diventerà poi il nucleo politico,amministrativo e finanziario della futura Tokyo. Durante le guerre contro gli Emishi l’indebolimento della Corte Imperiale favorì lo sviluppo di una casta di guerrieri consci del proprio potere che verrà conquistato sotto il dominio del Clan Minamoto che fu il primo a governare con il titolo di shogun. I samurai erano guerrieri professionisti a cui era proibito esercitare le arti del commercio e dell’agricoltura e il loro compito era quello di mettere a disposizione del proprio signore le proprie capacità marziali acquisite con lungo e costoso addestramento e la propria katana un cimelio ereditario di famiglia. Le vicissitudini belliche, nel corso dei secoli, fecero sì che i samurai diventassero anche mercenari e spesso anche usurpatori a danni dei signori legittimi. I samurai, a differenza del comune stereotipo, erano principalmente addestrati per l’arco che era il loro simbolo di appartenenza ad un alta classe e, all’inizio, propensi a combattere a cavallo. I combattimenti a cavallo inducevano ad elaborare protezioni speciali per il corpo senza tenere in considerazione lo scudo non adeguato per le formazioni poco serrate a differenza di come avveniva in Europa. L’assenza di formazioni di cavalleria pesante è dovuta alle peculiare caratteristiche morfologiche del terreno del Giappone. Le pianure sono scarse e insufficientemente estese per manovre, quali quelle tipiche degli eserciti europei ,su vasta scala. Alcuni clans presteranno molta attenzione alle tattiche di cavalleria ma vi sono eccezioni come i Takeda e gli Uesugi che tuttavia basavano le proprie strategie principalmente sulle manovre di fanteria appiedata, i famosi Ashigaru ( piede veloce ) , contadini reclutati e destinati ad essere, i più fortunati, parte della nuova classe di samurai dopo le guerre civili e sotto i Tokugawa. L’uso sempre più massiccio di moschetti alla fine del periodo Sengoku porrà fine alla cavalleria come unità organica segnatamente dopo la decisiva battaglia di Nagashino. Gli eserciti Tokugawa che parteciperanno successivamente all’invasione della Corea saranno infatti prevalentemente costutuite da fanti armati di moschetto ( il famoso teppo ). La cavalleria rimase per secoli principalmente un unità pretoriana di protezione dello Shogun prendendo il nome di Hatamoto ( la tenda di comando ) con sede permanente nel grande Castello di Edo. I samurai a cavallo,difatti, si distinguevano da quelli appiedati per la loro condizione sociale più elevata che poteva consentire il mantenimento ( come in Europa ) del cavallo e i più valorosi e capaci erano spesso usati come assistenti e guardie del corpo degli ufficiali ( gli Yoriki ) . l’elevato costo dei cavalli in un luogo caratterizzato da scarsi spazi per l’allevamento equino è un altro motivo per cui si preferiva dare alla cavalleria una funzione secondaria sul campo di battaglia dominato dalla fanteria equipaggiata da lunghe lance Yari ( una sorta di picche di lunghezza variabile ma in media sui 4-5 metri ) e Teppo ( micidiali in gran numero e in lunghe e compatte linee di fuoco ). I samurai, a differenza degli ashigaru, rimanevano anche fortemente individualisti e solo alcuni clan si permettevano di sottoporli a rigida disciplina. I samurai erano piccoli proprietari terrieri con propri servitori e vassalli che li assistevano nel mantenimento e assolvevano tutte le mansioni proibite altrimenti come la coltivazione dei terreni e commercio. I Daimyo ( i grandi signori feudali ) avevano la facoltà di radunare e convocare i propri samurai e li organizzavano in reggimenti guidati dai samurai di rango intermedio ( i Taisho ). Il sistema non garantiva la lealtà degli ufficiali e truppa che non di rado abbandonavano il campo di battaglia o persino cambiavano fazione anche in pieno svolgimento di una battaglia ( esempio classico la battaglia di Sekigahara ). L’epoca di mercenariato dei samurai fino all’avvento dei Tokugawa prenderà il nome di Gekokujo ( l’inferiore rovescia il superiore ).

I samurai, in origine, cercavano di deflettere le frecce e i colpi durante le schermaglie a cavallo con la conseguenza che l’armatura non era completa ma solo focalizzata sulle parti più interessate quali fianchi,mani,coscie e viso. In particolare i pezzi dovevano proteggere il collo ( nodowa ) , testa ( kabuto “maschera”, ho-ate ) , braccia ( hate ), ginocchia ( haidate, suneate ), le spalle ( waki-date, watagami ).

L’armatura completa diventava un bene ereditario e alla fine dell’epoca Muromachi ( l’epopea delle guerre fra clan ) era sempre più una reliquia che un equipaggiamento semore più orientato alla libertà di movimento in considerazione delle armi da fuoco e masse di ashigaru armati di picche. Le scuole marziali della katana sono posteriori alla fine delle guerre poichè la lunga dittatura Tokugawa rese impossibile per i samurai combattere in campo aperto con la conseguenza di abbandonare le armature e difese in virtù di tecniche di combattimento individuali in luoghi limitati e ristretti. L’armatura classica da samurai ( Yoroi ) cede il posto a protezioni più leggere e invisibili sotto gli indumenti in un periodo caratterizzato da frequenti attentati e complotti che si svolgevano nei palazzi e castelli all’ombra degli Shogun.

I samurai, come si è detto, sono abili arcieri perchè l’arco era l’arma della caccia che era un privilegio dei nobili della Corte Imperiale con il tipico zelo dei “parvenu” ( i samurai non erano nobili di sangue ) e sorsero, ben prima della katana, scuole ed insegnamenti di arco ( Kyudo nella versione attuale, Kyujutsu in origine ) allo scopo di addestramento militare in contrasto con l’intento di diletto dei nobili di corte. I samurai si addestravano anche a tirare in groppa a cavallo con pratiche ancora in uso ( Yabusame ) durante festivals e rievocazioni storiche. L’arco assumeva significati religiosi di caccia a spiriti malevoli ( Yagoshi-hikime ) e di saluto propiziatorio per i neonati ( Tanjo-hikime ) . Rimane ancora in uso l’usanza Yumitori-shiki degli atleti del Sumo che ricevono un arco che viene sfoggiato ed esposto con rituali al pubblico in seguito ad una vittoria. Yumi-ya era l’arcaica definizione di arciere e il dio della guerra Hachiman era nominato anche come Yumi-ya No Hachiman “ Hachiman l’arciere”.

La lancia era un arma non utilizzata sul campo di battaglia dai samurai ma esistono tuttora antiche scuole di naginata che erano principalmente usate da principesse e monaci.

La Katana era un privilegio esclusivo dei samurai ma scuole vere e proprie ( kenjutsu ) sono state fondate in tempi più “recenti” dopo la fine delle guerre feudali. I samurai si addestravano fin dall’età di 5 anni con le katane ricevute in via ereditaria come l’armatura. Lo scopo originario era quello di sostituire l’arco nei duelli a distanze ravvicinate. Un arma ricca di significati simbolici era lo Wakizashi per i rituali suicidi. Le katane erano considerate come “esseri viventi” dotate di poteri e capaci di offrire benefici e maledizioni. Le spade giapponesi “magiche” più famose sono le Muramasa dal nome dell’artigiano ritenuto pazzo. Le Muramasa erano note per aver provocato la pazzia e follie omicide ai proprietari.

Le scuole di katane sono attualmente le scuole di Kendo in età moderna. Il Kendo conserva la caratteristica di incontri molto rapidi e il principio di eseguire il minor numero di mosse per finire l’avversario seguendo precisi schemi autorizzati ed insegnati dalle scuole. Il livello di maestria più ambito dai samurai era quello di vincere lo scontro nel momento stesso di sfodero ( la celebre tecnica Iaijutsu ). In passato i samurai si esercitavano e provavano le armi sui contadini e condannati a morte prima che venisse imposto l’uso di manichini e simulacri.

I capi dei clan ( Daimyo ) si addestravano con ventagli di vario genere per venire incontro,talvolta, a situazioni inaspettate come avvenuto nel leggendario scontro fra Takeda Shingen e Uesugi Kenshin durante la Quarta Battaglia di Kawanakajima nel 1561.

Esistono altre ed alternative scuole di combattimento per tecniche ed armi estranee al codice Samurai quali ad esempio le catene ( Kusari ) o la segreta scuola dei Ninja ( Ninjutsu ) della qualepoco si conosce a causa della sistematica distruzione ordinata da Oda Nobunaga nel 1581.

I samurai disprezzavano la difesa tramite scudi e pesanti armature per una ragione semplice e nello stesso tempo incomprensibile per gli occidentali quale la mistica dello Haragei che è presente anche in altre culture dell’Asia. Haragei consiste nella combinazione dello Hara ( ventre, il centro delle energie del corpo ) e del Ki ( Ki-Ai ). Il concetto consiste, in breve, nella capacità, tramite techiche speciali di autocontrollo, di accumulare e conservare al centro del proprio corpo una forma di energia che era un misto di forza di volontà e potenza contro qualcuno o qualcosa. La potenza si otteneva con il contegno aggressivo e il disprezzo per la morte nella certezza di divenire un Kami ( divinità ) se ucciso in battaglia a maggior gloria per il proprio clan di appartenenza. La difesa tramite scudi era ritenuta dannosa perchè riduceva l’efficacia di manipolare la forza del Ki.

La mistica dello Haragei, di origine buddista, promuoveva inoltre abbandono dei sensi e la sopportazione del dolore come tappa per acquisire uno stato di esistenza superiore ingenerando forme di esaltazione e aggressività simili a quelle che caratterizzavano i guerrieri Berseker della tradizione europea. Questa caratteristica verrà mantenuta per certi tratti anche nelle vicende belliche della Seconda Guerra Mondiale con le tristemente celebri cariche Banzai dei soldati giapponesi. Lo Haragei tuttavia determina anche l’inevitabile fine dei samurai poichè le necessità già imposte negli ultimi anni dell’epoca Muromachi obbligheranno i signori della guerra a inserire sempre più massicciamente sul campo di battaglia contadini e gli umili della terra come fanteria e massa di manovra più facilmente controllabile. Gli Ashigaru si sostituiranno ai vecchi samurai per diventare i futuri samurai ed antenati del futuro esercito giapponese.

GABRIELE SUMA

mag 2, 2014 - Notizie    3 Comments

Etienne Marcel,Guillaume Caillet : capipopolo del ’300

La vicenda di Etienne Marcel e dei Jaques capitanati da Caillet  insegna come l’assenza di un certo benessere materiale,percezione di sicurezza, fiducia nei confronti dello Stato diventa ingrediente di una esplosiva combinazione di tensioni di varia natura che può sfociare nella violenza distruttiva come impulso vendicatore per torti veri o presunti tali. L’immiserimento genera sentimenti meschini e istinti di autosoppravivenza, egoismi e assenza di scrupoli in individui che possono anche non essere per personalità e carattere pericolosi. Quando un sistema saccheggia componenti sociali deboli ed incapaci di difendersi da soprusi può trovarsi nella possibilità di “scavarsi la fossa” per la tipica cecità di amministratori ottusi, sicuri della forza coercitiva della legge e della naturale tendenza degli esseri umani a seguire l’esempio violento se sufficientemente ampio e coinvolgente. In epoca moderna i cittadini dei paesi sviluppati sono abbastanza istruiti e “civilizzati” quel tanto da evitare e temere la violenza in piazza, almeno la maggior parte, indipendentemente dal livello sociale. Tuttavia la vicenda storica insegna che se, pure sono impossibili serie rivolte popolari, il populismo ben orchestrato e guidato da leader carismatici potrebbe ancora suscitare preoccupazioni agli establishment. I tempi attuali sono caratterizzati da questi “masaniello” cavalcanti la cresta dell’onda di una crisi economica che ricorda per durezza l’impatto sociale delle epidemie del ’300, ma alla rovescia nel senso che dapprima il ceto medio cresceva e diventava la base della Nazione mentre ora il ceto medio si sta impoverendo trascinando con sè le nazioni stesse svuotate sempre più di significato, almeno in Europa, dall’emergente sistema capitalistico senza frontiere,per certi aspetti più arretrato, per i suoi aspetti di neoschiavismo e neocolonialismo di sapore ottocentesco.

Dopo la disastrosa disfatta subita dai francesi a Poitiers il 19 settembre 1356 la campagna e le città dei domini diretti ed indiretti della dinastia dei Gigli iniziavano a ribollire portando in superficie questioni sociali,economiche e politiche lasciate irrisolte o anche semplicemente trascurate con effetti devastanti. Gli eventi che si susseguono come a catena sono senz’altro scatenati nel risvolto peggiore dalla disfatta militare e dal collasso del prestigio della Corona per la cattura e il lungo esilio del Re di Francia Giovanni II in Inghilterra. Poitiers aveva letteralmente decimato la classe dirigente francese costituita dal Re e dalla grande aristocrazia lasciando un vuoto di potere improvviso in un sistema politico e sociale ancora basato su rigide gerarchie feudali e assenza di un vero potere centrale. L’assenza di una forte amministrazione statale aveva determinato tutta una serie di gravi abusi dei numerosi poteri locali sulle categorie sociali inferiori in particolare i contadini che, pur godendo di uno status sociale superiore in seguito ai terremoti economici dovuti alle epidemie e allo sviluppo tecnologico dei sistemi di coltivazione, erano ancora soggetti a rigidi contratti fra cui la manomorta e il formariage ( divieto di matrimonio con persona al di fuori della proprietà del signore ). La manomorta era la condizione contrattuale che rendeva il contadino del ’300, uomo libero formalmente, ancora rigidamente vincolato al signore feudale che era l’unico proprietario dei terreni,strumenti agricoli,forni e mulini dei quali il contadino o l’artigiano erano solamente affittuari per una durata limitata alla loro vita e non era previsto il passaggio dei beni di famiglia ai discendenti degli affittuari. Inoltre il signore feudale, in quanto proprietario esclusivo dei terreni, godeva del diritto di acquisire ogni eccedenza di beni prodotti ed esercitava la giustizia e imponeva tributi solo nella forma in nome del Sovrano. I contadini, comunque, non erano una massa unica ma loro stessi erano un insieme articolato di categorie sociali in base alla quantità dei beni posseduti direttamente o in affitto ma erano tutti in blocco esclusi dalla classe dirigente che era ancora espressione dell’aristocrazia guerriera ed ecclesiastica da molti secoli. Un aristocrazia gelosa del proprio potere al fine di escludere da processi decisionali del governo l’allora emergente borghesia. Dopo il disastro di Poitiers era venuta a mancare quella forza che puntellava e manteneva in piedi un sistema sociale profondamente mutato nella composizione demografica ed economica in seguito alle sempre più frequenti e devastanti epidemie di peste che caratterizzarono il ’300. Difatti l’annientamento di interi nuclei famigliari in ogni livello sociale permise la scalata sociale di altre famiglie che acquisivano terreni e proprietà rimaste senza proprietari viventi o spesso trasferiti per necessità. Sorsero dunque nuovi proprietari terrieri in grado di divenire una forza di opposizione di fronte alla aristocrazia feudale delle campagne seriamente indebolita sia dalla peste, sia dalle vicissitudini militari in un periodo in cui la forza militare era prevalentemente in mano a milizie mercenarie che, in seguito alla tregua, erano state congedate e dunque incontrollabili e spesso fonte di problemi. Nel contesto la borghesia cittadina era stanca di supportare il potere centrale con continui prestiti senza garanzie di restituzione e si era organizzata per opporsi decisamente ad un ulteriore prestito richiesto dall’allora delfino Carlo ( il futuro Re Carlo V ) per pagare il riscatto del Re Giovanni ( gli inglesi avevano preteso circa 100000 fiorini, una fortuna per l’epoca ). Inoltre numerose altre città avevano cominciato a chiudere le porte ai reduci di Crecy considerati vigliacchi e traditori e talvolta opposero violenza al ritorno di essi alle proprie sedi. La situazione precipitò nel biennio 1357-1358 quando i rappresentanti più importanti della borghesia parigina trovarono come leader Etienne Marcel che era già conosciuto per le sue posizioni intransigenti nei confronti della monarchia come capo di tutti i mercanti della città ( il Prevosto dei mercanti di Parigi per la precisione ). Marcell approfittò del vuoto di potere per costringere il Delfino a convocare gli Stati Generali che per la Corona ha sempre comportato gravi disordini politici poiché il Terzo Stato godeva il vantaggio della maggiore coesione e determinazione con coscienza di essere l’unica vera fonte economica a supporto della Corona. Gli Stati Generali difatti diventarono subito dominati dai borghesi che pretesero dal delfino di effettuare drastici tagli sul personale amministrativo regio in cambio del pagamento del riscatto. I tagli colpivano importanti personalità del seguito regio ma il Delfino oppose il rifiuto sopratutto per l’oltraggio e l’attentato all’autonomia del potere regio. Il tentativo regio di sciogliere gli Stati Generali fallì e gli eventi successivi sembrano essere l’esatto anticipo degli avvenimenti della Rivoluzione Francese 400 anni dopo. Gli Stati Generali divennero un comitato permanente pressoché dominato dal Terzo Stato quando il Delfino e la maggior parte dei nobili e chierici lasciarono Parigi. Tuttavia, a differenza di quello che succederà nel 1789, la borghesia di Marcel non aveva sviluppato una “coscienza di classe” in termini marxisti il che vale a dire che i mercanti parigini non pensavano ancora di creare una classe dirigente autonoma per governare ed amministrare il Paese. Le loro rivendicazioni si limitavano a imporre alla Corona alcune condizioni politiche in cambio delle tasse senza mettere assolutamente in discussione altri diritti regi ( in modo simile alla grande rivolta nobiliare del 1215 in Inghilterra dalla quale si ottenne la Magna Charta ) . Inoltre i borghesi di Parigi non avevano alcun legame con la campagna e la classe mercantile non stabilì una vera alleanza con le gilde della manifattura e dell’industria solitamente disprezzate per la loro natura dell’attività manuale e socialmente degradante. Il vuoto di potere dunque non fu rapidamente riempito e gli effetti si fecero subito sentire. Il Comitato Permanente perse tempo in iniziative che verrebbero considerate oggi “populiste” quale ordinanze sugli orari dei lavori amministrativi,stipendi dei funzionari, controllo sulla coniazione della moneta e divieto di accumulo di cariche per funzionari provinciali. Un atto interessante è il generale divieto ai nobili di lasciare il regno che caratterizzerà in modo analogo i primi avvenimenti futuri della Rivoluzione Francese. Fu istituito infine il Consiglio dei Trentasei ma i borghesi di Parigi quasi non si resero conto che stava esplodendo il paese fuori dalle mura. I contadini, non vedendo più il Re Giovanni, persero la fiducia nei confronti dello Stato e ritennero di vendicare le sofferenze subite con la violenza senza alcun disegno ideologico e senza una reale organizzazione. Una sorta di rivoluzione “spontanea” ed esplosiva ma completamente priva di ogni genere di guida. La violenta reazione era provocata anche dalla crescente esasperazione, sempre per gli effetti di Crecy, dell’impotenza dello Stato nell’allontanare i mercenari assoldati e poi congedati dalla stessa Corona. Inoltre gli inglesi avevano lasciato in giro per il territorio francese i loro mercenari come un astuzia tattica per danneggiare ulteriormente i nemici sconfitti dopo la tregua. I contadini legarono l’assenza di interventi da parte della Corona alla responsabilità dei loro signori feudali che diventarono bersaglio di feroci attacchi. I castelli, semi sguarniti dalle epidemie e dalla crisi, furono incendiati e saccheggiati in un certo numero per varie regioni del Regno. I contadini prevalevano per il numero e determinazione e nulla potevano opporre le piccole milizie ( quando c’erano ) e ci furono massacri di nobili, talvolta intere famiglie di castellani. Intanto a Parigi i membri delle gilde del lavoro avevano utilizzato berretti con i colori rossi e blu ( le famose coccarde poi della Rivoluzione Francese ) e usando il nome di Marcel assassinarono l’11 gennaio 1358 tre importanti funzionari regi che avevano tentato di opporsi alla fazione di Marcel ormai divenuto padrone della città e quasi dittatore. Il tentativo del Comitato Permanente di forzare la mano alla Corona riguardo al pagamento del riscatto si risolse in un grave errore che segnerà l’esito dell’avventura politica di Marcel. Difatti la famiglia reale, un altro interessante parallelo con il 1791, fuggì da Parigi in direzione della fortezza di Meaux una delle poche fortificazioni meglio difese di tutto il Regno. Tuttavia il parallelo con il 1791 finisce lì poichè il comitato permanente, pur apparentemente vittorioso, non aveva una forza militare per imporre un governo e aveva perso l’appoggio di nobili che potevano offrire supporto militare, esiguo ma decisivo nei confronti della Monarchia anche essa priva di un esercito ma forte di propria legittimità plurisecolare. Le lotte fra il dittatore di Parigi e il Delfino di Francia aggravarono la situazione nella campagna poichè il Delfino aveva autorizzato i nobili a requisire beni dalle comunità intorno alla capitale per poter cingerla d’assedio. I contadini bruciavano castelli ma saccheggiavano anche altri contadini più agiati e così anche il “movimento” contadino si disgregò fra mille rivoli di gruppi dediti a saccheggiare e seminare terrore lì dove non ci fossero mura ben presidiate. Bande di mercenari si unirono ad essi per fare bottino finchè c’era occasione. Emerse ben presto un certo “capopopolo” carismatico e trascinatore di folle scalmanate di nome Guillaume Caillet, una sorta di “Masaniello” francese nella personalità e modi di fare. Le bande di Caillet si identificavano con una sorta di “uniforme” quali giacche di cuoio appunto e da lì l’origine della definizione storiografica Jacques. Mentre Marcel era dittatore a Parigi, Caillet divenne a sua volta dittatore nelle campagne della Francia grazie alla sua politica di alleanze con diverse città dove le gilde dei manovali avevano preso il potere. In pratica il Regno di Francia ( circa 2/3 della Francia attuale ) si disintegrò fra la fazione borghese parigina, i rossoblu delle gilde, i contadini e l’establishment feudale indebolito ma non del tutto sconfitto. L’aristocrazia e la Corona riuscirono, nonostante il caos, a conservare saldamente il controllo di Compiegne e Normandia dove le città ribadirono fedeltà al Delfino. Il momento decisivo e anche l’apice del clima da guerra civile avvenne il 9 giugno 1358 quando i Jacques cinsero d’assedio la fortezza di Meaux dove risiedeva la famiglia reale dei Valois e il Delfino e i maggiorenti dell’aristocrazia. I contadini furono rapidamente dispersi subito dopo dal rapido intervento di un gruppo di cavalieri ben addestrati e determinati guidati da Gaston, conte di Foix, insieme ad un vassallo degli inglesi Captal de Buch entrambi reduci da una crociata nella Prussia “pagana” di quel tempo. L’avvenimento galvanizzò l’aristocrazia e la fazione monarchica che si erano trovati di fronte a contadini non organizzati e facilmente sgominabili da veri uomini d’arme. La rivalsa contadina era possibile in Francia poiché i contadini avevano vinto militarmente i cavalieri supplendo la minore qualità con i terreni più impervi e con armi appositamente progettate contro i cavalli quali le picche e le alabarde come dimostrato in svizzera nella battaglia di Morgarten nel 1315. I cavalieri si vendicarono con estrema brutalità sulle città che avevano stretto patti con i Jacques e gli orrori della guerra civile entrarono nelle città fino ad allora risparmiate. Infine Caillet venne catturato con l’inganno ( o tradimento a seconda delle ipotesi ) e i Jaques, senza un vero capo, tornarono ad essere una caotica forza sempre più in disfacimento e facilmente repressa senza pietà dai nobili che tornavano nelle proprie sedi con la spada. La persecuzione anticontadina fu tale che i Jacques cessarono di esistere in un giro di un mese e la classe contadina fu rimessa strettamente sotto controllo nel tradizionale sistema feudale. La fine dei Jacques accompagnò ben presto quella di Marcel che aveva provato a coinvolgere essi nella lotta politica contro la Corona attirandosi l’ostilità dei nobili che,insieme a borghesi esasperati dal radicalismo dei rossoblu, avevano espresso vivo orrore al tentativo del dittatore di allearsi con il pretendente al trono Carlo di Navarra. Il gesto costò la vita al Prevosto dei Mercanti il 31 luglio del 1358 a Parigi per mano degli stessi facinorosi che Marcel stesso aveva utilizzato per le sue ambizioni. La morte di Marcel e la fine dei Jaques segnarono bruscamente la fine di un breve periodo di confusione che a grandi linee rappresenta l’emergere di una situazione socio-economica completamente nuova che chiude il medioevo e apre la strada all’età moderna con tutte le questioni che l’accompagneranno quale il ruolo della monarchia, le rappresentanze sociali, l’assolutismo fino alla fase culminante e quasi “vendicatrice” per certi aspetti della Rivoluzione Francese.

GABRIELE SUMA

nov 30, 2013 - Notizie    10 Comments

Bruegel e la Guerra

Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non il torturato. – Elie Wiesel

Il capolavoro “Trionfo della Morte” di Bruegel il Vecchio fu terminato nel 1562. L’artista ha vissuto nel periodo più violento e sanguinoso della storia delle Fiandre, la Guerra di Indipendenza contro gli Asburgo che fra tregue e coinvolgimento anche di potenze straniere ( Francia e Inghilterra ) durò dal 1477 al 1648. Un conflitto micidiale che devastò una delle terre più ricche d’Europa per quasi 170 anni. La ricchezza prodotta dalle città fiamminghe era una delle voci più importanti del bilancio dell’Impero Asburgico impegnato in costosissime guerre contro la Francia e Inghilterra su fronti navali e terrestri su scala mai vista in passato. Carlo V ereditò Olanda e Belgio dal ramo dei borgognoni che si estinse dopo la morte repentina di Carlo il Temerario ultimo dei Duchi di uno stato fino a quel momento indipendente e grande potenza. Le sorti della ex-Borgogna si unirono a quelle degli Asburgo di Austria che acquisirono pure la corona spagnola per la cessazione della linea dinastica maschile dei Trastamara. Il Re di Spagna e Duca di Borgogna e Arciduca dell’Austria fu eletto Imperatore e in tal guisa le province borgognone furono inglobate nel sistema federale dell’Impero ma con un grado di autonomia più ridotto rispetto agli altri principati per la caratteristica di essere dominio di famiglia dell’Imperatore. Carlo V era nato a Gand una delle città più importanti del Ducato di Borgogna. Quindi gli Asburgo consideravano loro diritto legittimo il governo diretto e di proprietà personale dell’Imperatore in quanto legittimo successore. Le città fiamminghe erano fra le più ricche d’Europa grazie ad un’articolata rete commerciale sia marittima che fluviale da più di trecento anni grazie allo sviluppo notevole per qualità e scala di manifattura,coltivazioni e produzione culturale ed artistica. L’intensa attività commerciale permetteva una rapidissima crescita delle città e di conseguenza maggiore gettito fiscale e forza lavoro per sistemi produttivi di vario genere e si ebbero anche,per un periodo relativamente lungo, capacità militari non trascurabili sopratutto durante la Guerra dei Cent’Anni. Il valore economico era tale che fin da subito le città fiamminghe contribuirono a finanziare le sempre più ingenti spese militari affrontate dall’impero asburgico in guerra con la Francia per decenni. Carlo V, nel tentativo di restaurare l’antico sogno di impero universale, combattè contro Francesco I di Francia spesso in Italia ma anche nel Mediterraneo dove si svolsero anche costose imprese contro il principale alleato dei Valois quale l’impero ottomano e i pirati della Tunisia. Nel XVI secolo le guerre prosciugavano rapidamente le casse anche di grandi potenze per gli elevati costi determinati dalla svalutazione monetaria, dall’uso sistematico del credito e del debito e dall’impiego prevalente di mercenari ma anche sopratutto dalla corruzione del sistema delle commesse di materiale militare che arricchiva gli imprenditori e ufficiali collusi più spregiudicati a danno degli eserciti stessi che, a causa delle ruberie e truffe, finivano per essere mal pagati e mal equipaggiati. Il caos organizzativo del sistema logistico provocava continue diserzioni, forme di indisciplina e rappresaglie e saccheggi a danno dei luoghi anche di appartenenza del signore che aveva “noleggiato” l’esercito mercenario. Disordini che erano dunque molto frequenti e vissuti da intere generazioni compresa quella di Bruegel anche forse solo indirettamente. L’arte ha lo scopo di trasfigurare il reale e metabolizzare paure e sentimenti di un epoca sotto forma di rappresentazioni. L’arte fiamminga esaltava la classe borghese e le città ma anche le sofferenze e gli incubi dei più sfortunati e nel contempo faceva passare sotto la superficie di un mondo senza cavalieri ed eserciti l’inquietudine per gli anni di ferro sotto forma di immagini apocalittiche apparentemente prive di attualità politica e riferimenti storici. Gli artisti erano in massima parte impiegati dalle corti reali o nobiliari o comunque pagati da committenti di rilievo sociale non indifferente e ovviamente si guardavano bene da inserire prospettive personali su specifiche persone ma spesso erano pagati apposta per ritrarre delle persone che guadagnavano prestigio oppure ne facevano come una sorta di ex-voto di penitenza ( quando si tratta di opere destinate a sedi religiose costruite o ampliate con i contributi del committente ). Gli artisti erano, talvolta, anche pagati per realizzare opere che potessero impressionare o stupire e in questo caso potevano avere quel sufficiente margine di autonomia per creare immagini di impatto propagandistico tale da suscitare pensieri ed emozioni che i committenti indendevano stimolare. Le emozioni che si dovevano suscitare potevano essere la paura e il terrore anche se più per l’anima che per il corpo poichè il pubblico, popolare o “qualificato”, non era particolarmente disturbato da immagini di violenza fisica che nella vita quotidiana dovevano essere molto frequenti. La violenza rappresentata doveva essere percepita come parte dell’ordine delle cose e dunque non si esprimeva il disgusto o il disprezzo ma neppure il compiacimento e la glorificazione delle rappresentazioni del nostro secolo. L’assenza di ideologie di massa permetteva di esporre la violenza come un elemento del disegno divino del quale l’Uomo non poteva arrogarsi per mutare un assetto o un equilibrio. Inoltre la violenza, essendo strumento divino, era davvero “ignorante” di appartenenze sociali. Nelle rappresentazioni apocalittiche tutti erano coinvolti e immersi nella violenza e travolti in netto contrasto con l’arte del nostro secolo in cui la violenza lo si esercita solo sulla parte avversa o, in termini negativi per chi la esercita, “glorificando” la vittima.
In tal guisa il Trionfo della Morte rappresenta la violenza, così quotidiana e così onnipresente, senza carnefici e vittime dotate di propria volontà e nello stesso tempo il grandioso e tragico affresco della sua terra martoriata dagli orrori della guerra lasciando sospeso ogni giudizio politico. L’opera apre allo sguardo il sinistro orizzonte di città in fiamme quasi come profetica visione dei carboni ardenti delle metropoli del XX secolo e gli occhi si posano inevitabilmente,come guidati, attraverso desolate terre dove l’opera dell’uomo è annientata o piegata agli strumenti di morte e tortura ( forche e ruote )fino alla visione di scene di rastrellamento e massacri indiscriminati. La grandezza di questa visione sta nella sua dimensione profetica e contemporaneamente testimone delle sofferenze della sua terra. Le esecuzioni, dstruzioni di città,decapitazioni,rastrellamenti e lugubri passaggi di bare e sacerdoti stavano avvenendo realmente su scala progressivamente più ampia da parte degli eserciti asburgici nel tentativo di imporre ai fiamminghi i diritti imperiali. Bruegel, non avrà vissuto direttamente l’esperienza, ma la visione, così vivida, era frutto di quello che percepiva all’esterno specie nelle campagne le più esposte e vulnerabili alle angherie dei soldati. Le repressioni su vasta scala si estesero pochi anni dopo il completamento del dipinto con il massacro di migliaia di ribelli a Bruxelles da parte dei soldati del Duca di Alba dando inizio ad una guerra che sarebbe durata ben oltre la vita di Bruegel. In Trionfo della Morte gli scheletri, spietati e metodici, dovevano essere visti agli occhi degli spettatori fiamminghi come i soldati imperiali con effetto di suscitare,oltre all’orrore per la propria anima e per i peccati e l’inevitabilità della Fine dei Tempi, sentimenti contrastanti ( ben rappresentata dal contrasto netto fra il distaccato atteggiamento della coppia di giovani più attenti alle note del liuto dalla pronta reazione invece di un altro giovane intento a sfoderare la spada ).
Le immagini descrivono violenze e angherie con grande realismo come il cavallo che travolge una donna inerme a terra, uno scheletro che afferra un altra donna che fugge, altri che gettano reti per catturare e altri ancora che spingono gli esseri umani con armi in mano all’interno di qualcosa mentre tamburi rullano e cortei suonano trombe e innalzano forche. Sequenze di scene che sotto forma di metafora biblica dell’apocalisse rappresentano i rastrellamenti di civili ed esecuzioni di prigionieri e maltrattamenti sugli inermi compiuti da esercito vittorioso e repressivo.

L’affresco diventa così pregnante di valore universale e dunque capolavoro dell’Arte perchè supera la contingenza del tempo per divenire simbolo della brutalità della guerra come, a mio parere personale,una sorta di Guernica di Picasso o il 2 maggio 1808 di Goya. I civili di qualsiasi fazione in lotta saranno sempre vittime di uomini che con le armi vengono meno ad ogni forma di rispetto per la dignità umana.
Dignità umana sempre calpestata quando le circostanze fanno sì che la natura umana, di per sè spietata, si spoglia di quei sentimenti che solo l’Uomo aveva sviluppato quale la pietà e la misericodia.

GABRIELE SUMA.

set 29, 2013 - Notizie    5 Comments

Il Faro e l’Impero Britannico

Mahan Alfred Thayer è noto per i suoi studi sulla dinamica di egemonia mondiale da parte delle Talassocrazie fra cui in partticolare l’Impero Britannico e l’Impero Francese.  Nacque e visse ( 1840 – 1914 ) negli Stati Uniti  Il suo lavoro era essenzialmente basato sulla verifica di una grande teoria generale”Il controllo degli Stretti è contenimento continentale”.  Nello stile tipico della letteratura scientifica del ’800 , ridurre il particolare per delineare la generale struttura “logica” degli avvenimenti e fenomeni. Mahan si investiva del ruolo appunto di “scienziato” che analizza la complessità di un soggetto di ricerca ricavando di volta in volta i nessi fra gli avvenimenti e dati fino a costruire con il materiale raccolto la “diagnosi”( che semplifica il soggetto ad un “modello” astratto che possa essere base di sostegno alla tesi di partenza). La ricerca di Mahan infatti non si occupa della storiografia marittima dalla quale egli utilizza le fonti ma non il metodo e lo scopo, ma piuttosto della Grande Strategia, una branca di ricerca molto particolare che ha affinità con la Sociologia ( nel periodo di Mahan ai suoi primi passi ) e con il pensiero asiatico che,grazie alla prospettiva confuciana dello Stato come mezzo di felicità collettiva, si riprometteva di delineare con modelli astratti i doveri dei governi e regnanti. Infatti Mahan, volente o nolente, ha posto come condizione ottimale per la soppravivenza dello Stato, situato alle periferie di masse continentali, il controllo dei mari e specificamente il dominio di località geografiche di importanza strategica quali gli Stretti. Il concetto del controllo degli Stretti appartiene anche al diffuso determinismo geografico caro ai teorici a tutte le latitudini e ogni studioso ha di solito focalizzato l’attenzione su generali condizioni quali  il clima,l’orografia e dimensioni. Gli stretti diventano i cardini fondamentali del dominio marittimo indipendentemente da condizioni oggettive e tale argomento è supportato dalla considerazione di avvenimenti storici reali presi in esame ( la ricerca è focalizzata sopratutto sulla storia coloniale inglese e francese ) con presupposto che quanto più un risultato storico si “ripete” nelle sue forme generali ( avvenuto dominio di una potenza sulle altre ) quanto più è corretto fare di ciò un assioma astratto e valido in ogni circostanza. Dunque il controllo degli stretti  è stato in particolare un’ operazione mandata avanti,consapevolmente o no,dalla più grande Talassocrazia del tempo quale l’Impero Britannico. Uno dei simboli del dominio dei mari è rappresentato dai fari che aiutano le navi a seguire le rotte e le Isole Britanniche erano caratterizzate da aree di passaggio marittimo fra le più difficili che potessero affrontare le navi in tempi anche non lontani. Gli scogli sono paragonabili a mine esplosive per la capacità di dilaniare anche gli scafi più resistenti e l’Inghilterra era per lo più circondata da settori pieni di queste insidie unite alla frequenza di tempeste di grande potenza e coste frastagliate e ostili anche ai più veterani dei marinai . Condizioni climatiche che rendevano inespugnabile l’isola in periodi invernali  ma anche incubo per gli inglesi che basavano la loro forza nel collegamento con il mondo esterno e nelle vie commerciali marittime.  Le zone più pericolose si situavano  in particolare fra le isole Ebridi ( a ovest della Scozia ) e lungo le coste della cornovaglia a sud dell’Inghilterra. I fari hanno la caratteristica, in queste proibitive condizioni meteorologiche, di assumere forme quasi da fortezza militare con fondamenta colossali ma progettate per offrire  tuttavia  resistenza ai violentissimi venti del mare per non crollare e nello stesso tempo garantire la massima protezione a quello che più contava cioè la fonte luminosa stessa racchiusa in ingegnosi sistemi in gran parte basati come principi sui disegni di Fresnel vissuto a cavallo fra il ’700 e l’800.  I fari più importanti utilizzarono per tutto l’800  i “specchi” di Fresnel racchiusi e protetti nel mercurio liquido e realizzati per emettere fasci di luce a grandissime distanze a moto continuo senza praticamente alcun intervento umano oppure alternativi e più comuni sistemi di illuminazione alimentati costantemente con l’olio da parte degli operatori ( guardiani ) fino a quando sarebbero stati gradualmente sostituiti da sistemi elettrificati autonomi oppure da soluzioni chimiche più avanzate richiedenti ancora alimentazione periodica da parte di personale ( a base di gas di Xeno che per stimolo elettrico ingenera un potente fascio luminoso ).

I fari, come si è detto, hanno l’importantissima funzione di guidare le navi mantenendo ad esse le rotte prestabilite ,offrono la massima sicurezza sia al largo sia in prossimità di porti ed aree di attracco. Gli stati investono grandi risorse per stabilire queste postazioni nei luoghi anche più difficili a scopo di salvare vite e merci  . L’Impero Britannico era la Signora dei Mari per eccellenza. Gli inglesi,oltre alle navi da guerra e scali commerciali, lasciavano i loro segni di dominio anche con i fari in mezzo mondo quando allora il globo era appunto quasi per un terzo colorato di rosso sulle carte geografiche.  I fari dunque sono un simbolo di civiltà superiore e dominante come lo sono stati acquedotti e strade per Roma e le mura per la Cina.

L’esempio più interessante di faro come simbolo di una civiltà è quello di Bishop Rock. Esso è situato su una piattaforma piccolissima di scogli in mezzo al tempestoso mare dell’Oceano Atlantico e precisamente a ovest delle isole Scilly in una posizione strategica di enorme valore poichè è praticamente al centro di due aree marittime quali sono il Mare Celtico ( che separa Irlanda e Inghilterra ) e il celebre Canale della Manica. Il faro è stato costrouito su questi scogli disabitati e climaticamente ostili sopratutto per supportare il via vai delle navi che entravano ed uscivano per il Canale della Manica sopratutto in direzione di Londra per secoli meta di rotte commerciali dai quattro angoli di quello che fu l’esteso Impero Britannico. Le condizioni meteorologiche e l’insidie degli scogli di quest’area rendevano molto pericoloso infatti il transito delle navi quando ancora non c’erano ausili di avanzata tecnologia satellitare e dopo l’ennesima perdita non più solo di navi mercantili ma anche di un importante nave da guerra ( la Romney) . L’area non era priva di un faro ma quello installato sull’isola di S.Agnes era considerato inadeguato alle necessità.Nel 1707 si decise di usare come piattaforma di un nuovo faro una superficie scogliosa estremamente piccola ( appena 50 metri e largo poco più di 15 metri ) che era davvero una sfida per le tecniche ingegneristiche dell’epoca ( siamo ai primi del ’700 ). Infatti l’intento rimase sulla carta per quasi 150 anni .Nel1847  ufficialmente iniziò la progettazione e costruzione del faro inizialmente concepito per essere basato su strutture di ghisa invece della pietra ( inadatta contro la furia delle tempeste oceaniche ) . I lavori erano quasi terminati quando una tempesta di violenza imprevista nel 1850 distrusse la struttura fin quasi alle fondamenta.

La situazione avrebbe spinto popoli meno determinati a conquistare imperi a desistere  ma gli inglesi, come in tante altre situazioni, sfidarono la Natura come se  da questo  dipendesse la vita della loro Nazione. La potenza dell’ Union Jack si reggeva sopratutto sulla capacità di garantire sicurezza sui mari a tutti coloro che desideravano commerciare con gli inglesi. Rotte commerciali sicure erano anche fonte di prestigio politico e una delle condizioni per stabilire relazioni diplomatiche favorevoli e sviluppo economico a tutto vantaggio della potenza militare  simbolo di sicurezza e potere di un grande impero. Dunque il faro andava comunque costriuito nello stesso luogo contro ogni possibile ostacolo che la Natura potesse imporre. La sfida era stata accolta con un nuovo progetto non più basato sulla ghisa ma su un sistema in sostanza tradizionale per il materiale usato ( granito ) ma con un metodo molto più ardito:  in condizioni terribili, spostare tonnellate di granito su un punto del piccolo ammasso di scogli e pompare costantemente via acqua dal luogo di basamento in modo tale da impilare e collegare pesantissime sezioni tagliate e lavorate in Inghilterra. Si spostavano centinaia di tonnelate con il solo ausilio di navi in una zona marittima difficilissima e i lavori durarono sette lunghi anni impiegando risorse umane e finanziarie per l’epoca non da poco ( l’operazione costò 35000 sterline, una fortuna nel 1858 ) ma la Natura ebbe,ancora una volta la sua spietata rivincita ponendo fine al faro progettato dall’Ingegnere James Walker pochi anni dopo nel 1874 con un altra rovinosa e violentissima tempesta. La furia del mare fu tale che danneggiò una torre di 35 metri e 2000 tonnellate di granito.  La torre era soppravissuta all’uragano ma in condizioni tali da non poter essere in grado di operare in condizioni accettabili. La  battaglia degli inglesi contro Nettuno comunque non era ancora finita. L’Impero stava raggiungendo lo zenit della sua potenza e la necessità di un faro in quella zona era ancora più impellente di prima a causa di una rete commerciale via mare ormai sempre più intensa e complessa verso il cuore della Terra d’Albione. Dunque la Trinity House ( l’Ufficio generale per i fari  ) autorizzò il varo di un terzo progetto non meno ambizioso dei precedenti  con la firma di James Douglass che è stato praticamente il capo supervisore dei progetti di James Walker per il primo e secondo faro. Douglass seguì in linee generali il progetto del faro di granito ma aumentandone l’altezza e creando un doppio basamento sempre di granito e i lavori durarono dal 1881 al 1887. La torre era davvero un simbolo della,appunto, “granitica” volontà britannica di imporsi su Nettuno dominandolo con le catene per la sua altezza ( 44 metri ) , per il materiale utilizzato ( 5270 tonnelate di granito e bulloni di acciaio ) e per il costo pressochè doppio della torre precedente ( 60000 sterline circa ).

Il dato più impressionante è che questo progetto del 1881 è pressochè immutato ancora oggi ( 132 anni di vita ) con modifiche sostanziali solo per la piattaforma di atterraggio degli elicotteri realizzata ai primi del 2000 e per l’elettrificazione e automatizzazione degli impianti rispettivamente nel 1973 e 1991 che resero il sito oggi sostanzialmente disabitato come lo sono diventati dagli anni ’90 anche quasi tutti i fari nel mondo.

La vicenda simboleggia non solo la capacità dell’Uomo di modificare la Natura con la forza della mente e degli utensili ( la virtù dell’Homo Faber ), tra l’altro in piena epoca del Positivismo che proprio in quei anni esaltava tali capacità mediante la tecnica e la Scienza, ma anche la determinazione di un popolo unito da un comune senso di orgoglio che fa gli uomini facenti parte  consapevoli,nel loro piccolo, di contribuire alla soppravivenza del sistema a costo anche di sacrifici .”Sangue,sudore e lacrime” erano quello che  disse un certo Winston Leonard Spencer Churchill nel momento più buio dell’Isola che non era in quel momento minacciata da onde nere di Nettuno ma dalle minacciose ombre del Nazionalsocialismo. In quel frangente egli assunse il ruolo di faro nell’oscurità ,fatto di granito come la torre che ancora lanciava i suoi accecanti fasci luminosi nella fredda asperità rocciosa di Bishop Rock.

GABRIELE SUMA

ago 18, 2013 - Notizie    5 Comments

La guerra franco-spagnola nel Tarantino

La Puglia nel XVI secolo era teatro di aspre contese fra le maggiori potenze del Mediterraneo per la posizione strategica fra i Balcani e il centro dell’antico Mare Nostrum. La posizione permetteva agevole transito di rotte commerciali e militari verso l’Oriente. Taranto era uno dei porti più importanti dal punto di vista politico e militare , dunque dotata di fortificazioni e guarnigioni da secoli. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente comportò il declino della città che fu oggetto di lunghi periodi di trascuratezza ed abbandono sopratutto sotto la dominazione bizantina. Il mezzogiorno alla fine del ’400 era stato invaso da forze militari congiunte della Francia e Spagna in seguito alla chiamata del Papa Alessandro VI Borgia. Roma usò come pretesto la mancata unione dinastica fra i Borgia e i Trastamara di Napoli. L’ultimo re di Aragona di Napoli fu Ferrante, che abbandonò ben presto il Trono per fuggire in Francia lasciando il Duca di Calabria e suo Erede Ferdinando nel Tarantino rimasto ultimo territorio non ancora perduto. Gli spagnoli giunsero per primi nelle vicinanze della città il 16 settembre 1501 ed iniziarono a stringerla d’assedio in attesa dei francesi. Il Duca di Calabria non accettò la resa nonostante il collasso del Regno e continuò ad organizzare la difesa anche di altre fortezze e città poste sotto assedio in tutta la Puglia in particolare Gallipoli. I francesi, sulla strada, occuparono Altamura e Corato che sarebbero dovuti essere nella sfera di influenza spagnola suscitando i primi attriti con gli alleati. Taranto,frattanto, aveva già conosciuto recenti episodi bellici nella guerra scatenata da Carlo VIII che sconvolse l’intero assetto politico dell’Italia e gli equilibri stessi dell’Europa. Gli aragonesi avevano affrontato i francesi avendo come alleati i futuri nemici ( papalini e veneziani ). Taranto, all’inizio, si arrese subito all’armata francese di invasione e si difese strenuamente contro molti attacchi da parte veneziana ed aragonese sopratutto dal versante marino. Le artiglierie navali erano ancora ai primordi e le difese ancora molto robuste pur ancora di tipo antiquato ( uno stadio di transizione dalle mura alte e merlate ai bastioni bassi e spigolosi ). La città resistette a lungo anche per il fatto che Taranto apparteneva alla corona per i legami dinastici con l’antico Principato di Taranto,dunque con timore di severe rappresaglie. Taranto, nel 1496, chiese addirittura di entrare a far parte della Repubblica di Venezia ma la ritirata repentina della guarnigione francese comportò la conseguente rapida resa della piazza alle truppe aragonesi. I Trastamara decisero di perdonare il tradimento e stabilìrono l’amnistia e privilegi fiscali. Taranto aveva dimostrato di essere una roccaforte di grande importanza grazie a notevoli riforme strutturali effettuate da Francesco di Giorgio Martini, Ciro Ciri, Matteo Crispano ed Andrea Passante nel periodo successivo al Massacro di Otranto. I turchi e pirati africani infatti depredavano le coste pugliesi imponendo alla corona aragonese la difesa con un articolato sistema di torri e fortezze sorte sopratutto sulle fondamenta di fortezze precedenti di costruzione bizantina o federiciana.

 Il Castello di Taranto era munito da Bastioni di grandi proporzioni dalla forma rotonda con parapetti merlati che venivano “battezzati”S.Angelo,S.Lorenzo,S.Cristofalo e Annunziata. Il cuore delle fortificazioni era protetto tutto intorno da fossati in collegamento diretto con i due mari e comunicava con la terraferma continentale dai due ponti levatoi Ponte dell’Avanzata e Ponte de Soccorso rispettivamente per la città e per la strada aperta verso est. Durante l’assedio franco-spagnolo i papalini disseminarono discordia e diserzioni nel contingente assediante per le ambizioni personali del Duca di Valentinois, Cesare Borgia, interessato a reclutare truppe straniere per sottomettere l’Italia Centrale. Oltre a ciò, i francesi tentarono di dissuadere il Duca di Calabria a cedere la fortezza tramite il re deposto ( ed in esilio in Francia ) ma alla fine gli spagnoli prevalsero senza spargimento di sangue corrompendo nel modo migliore il difensore della piazza il 1 Marzo del 1502.. I francesi, indignati, tornarono in forze l’anno successivo con un potente esercito guerreggiando direttamente con gli spagnoli ed occuparono gran parte della Puglia tranne alcune fortezze fra cui proprio Taranto. Entrambi gli eserciti si dissanguarono lentamente con interminabili scaramucce evitando le battaglie campali. I francesi, meno disciplinati e peggio pagati, diventarono presto oggetto di odio da parte della popolazione locale. Le rivolte anti-francesi,manipolate anche dagli spagnoli, costrinsero i francesi a ritirarsi specie in seguito alla grande insurrezione di Castellaneta il 12 febbraio 1503. Infine gli spagnoli batterono definitivamente i cugini d’oltralpe a Cerignola il 28 aprile dello stesso anno. Taranto rimase saldamente in mano spagnola e molestata solo da continue incursioni corsare dei francesi ai danni di masserie e coste. L’artiglieria del castello  pur risalente al periodo aragonese, era in grado di rendere impossibile ogni tentativo di assalto via terraferma e rischioso l’embargo via mare ( inoltre tentativi di sbarco furono sempre stroncati con relativa facilità ). Dopo la guerra Taranto, da vitale centro di comunicazioni, perse progressivamente importanza, in seguito anche a grandi avvenimenti geopolitici fra cui il declino del Mediterraneo per le Americhe. La guarnigione fu notevolmente ridotta e costituita da personale militare di provenienza locale ( con famiglie appresso ) con degrado generale delle difese fino al punto da permettere uno stabile insediamento di pirati turchi nelle isole S.Paolo e S.Pietro a poca distanza dalla città. Il declino fu tale che dal 1573 Tiburzio Spannocchi propose per la prima volta di creare una base navale militare nel Mar Piccolo e un nuovo e poderoso sistema difensivo basato sulle più moderne concezioni ingegneristiche dell’epoca. Il progetto in sé fu scartato. Dalla fine del ’500 si era aperta una nuova epoca di successive riforme del Castello definendo i lineamenti generali che sarebbero rimasti poi inalterati per quasi 300 anni successivi. Nonostante la scarsa guarnigione e il malgoverno che avrebbe caratterizzato l’amministrazione della Piazza, Taranto avrebbe ripreso lo status di “regina dei due mari” quando tornerà ad essere tenuta in seria considerazione proprio da antichi amici-nemici di sempre: i francesi.

GABRIELE SUMA.

mag 25, 2013 - Notizie    2 Comments

Nascita di una dinastia

Ci sono stati nel corso della Storia  esempi di dinastie fondate da regnanti di origini oscure( l’ultimo caso è quello della Corea del Nord ) e le dinastie si reggevano in modo dispotico per la scarsa legittimità nei confronti del sistema sociale su cui i sovrani si trovavano a dover governare. Umili origini non significa automaticamente di origine contadina o comunque di basso ceto ma indica le personalità che conquistavano il potere al di fuori della stretta cerchia di antiche aristocrazie e in genere per esito vittorioso sul campo di battaglia ( la Storia Cinese abbonda di queste vicissitudini dinastiche ). Infatti il più delle volte il fondatore di una dinastia proveniva dall’esercito e curiosamente era molto più frequente che fosse un soldato carrierista che un ufficiale. Tuttavia la Storia rappresenta singolari eccezioni e una situazione “anomala” fu quella della dinastia Brooke che governò il piccolo stato del Sarawak, una regione del Borneo e attualmente parte dell’arcipelago indonesiano. Una dinastia che ha segnato profondamente la regione nel giro di un secolo, fondata non con spade e cannoni ma con il metallico suono delle monete che passavano di mano fra il fondatore, James Brooke, e il Sultanato del Borneo. Uno Stato che divenne ben presto autonomo e praticamente indipendente in tempi brevi e senza spargimenti di sangue pur ammettendo che tale evoluzione fu resa possibile dal fatto che i Brooke, pur essendo esponenti della media borghesia, godevano dello status di cittadini britannici e dunque protetti formalmente dall’Impero Britannico, all’epoca Superpotenza Mondiale. I Brooke infatti non appartenevano nè all’antica nobiltà di origine normanna ( la cerchia più potente e antica dell’aristocrazia decadente dal tempo della Guerra delle Due Rose ) e neppure alla rampante nuova aristocrazia sviluppatasi sulla scia dei corsari e mercanti del tempo di Enrico VIII e Elisabetta la Grande. Il protagonista,James, era semplicemente figlio di funzionari della Compagnia delle Indie Orientali che sarebbe diventata potente per un periodo relativamente lungo ; gli eventi avrebbero favorito l’imprevedibile ascesa di tali oscuri sudditi di Sua Maestà. Difatti i Brooke ebbero la sorte di agire in una delle aree dove, a causa delle guerre napoleoniche, gli inglesi entrarono nell’area del Borneo sostituendosi agli olandesi all’epoca divenuti,volenti o nolenti, alleati di Napoleone. Un area però caratterizzata da forte attività piratesca ( tuttora la pirateria rimane una realtà di grande rilevanza nell’area ) che ostacolava la marina britannica in più occasioni. Un altro elemento importante per la carriera dei Brooke fu la notevole tendenza delle autorità ( il sultanato del Borneo e i suoi vari vassalli ) a farsi corrompere e in tal guisa il colonialismo si sviluppò fin da subito appunto su binari diversi rispetto a molti altri luoghi del pianeta. Gli inglesi stabilirono una forma di “egemonia” indiretta ufficialmente dal 1813 con la dichiarazione vassalatica del Sultanato del Brunei all’Amministrazione militare britannica che risiedeva a Giava sottratta agli olandesi durante le guerre napoleoniche. Un “impero” però messo su da iniziative private della Compagnia della quale i Brooke poco tempo dopo  avrebbero fatto inizialmente parte. Un’egemonia praticamente “non ufficiale” ,che, la Corona non volle per moltissimo tempo riconoscere ; pertanto non un dominio colorato del rosso imperiale sulle ufficiali cartografie del periodo. La mancanza di riconoscimento politico sarebbe stata la base stessa del fortunato regno dei Brooke da lì a venire.

La carriera fu rapida, come lo era per gli avventurieri e in  terre inesplorate o lontane dal cosidetto “mondo civilizzato” ( per l’occidente ). Infatti James Brooke partì per il Borneo approfittando delle opportunità fornite dall’impero personale che stava istituendo la Compagnia, praticamente autonoma dalla Corona e dal Governo. Egli iniziò le sue attività usando come base all’epoca Singapore già divenuta parte del nascente Impero Britannico nel 1839. La situazione in Sarawak, una regione della grande isola del Brunei, risultava favorevole alle ambizioni di Brooke poichè vi risiedeva un gruppo etnico costituito dai Daiak che mal sopportavano l’egemonia malese del Sultanato tra l’altro indebolito dai contrasti fra i parenti della dinastia regnante e il Sultano stesso ( Omar Alì ) era screditato e considerato malato di mente. Brooke sfruttò le divisioni in seno alla dinastia e conquistò le simpatie di Hasim, zio di Omar Alì e designato successore al trono ( il titolo era Rajah Muda ). Il Sarawak era il territorio assegnato dal Sultano al Rajah Muda con il compito di sopprimere le continue rivolte dei Daiak e di contrastare la pirateria sul mare. Hasim pensò di poter ottenere aiuto da parte degli inglesi ma quando Brooke sconfisse i ribelli, si rese conto che gli inglesi avevano stabilito accordo direttamente con i ribelli. In seguito Brooke stabilì la residenza nel Sarawak ed ebbe come alleati una parte dei Daiak e ricevette l’aiuto della flotta inglese mettendo in atto una lenta ma progressiva penetrazione economica e politica in tutta la regione ed applicando un astuta campagna di consenso popolare pur ostacolando ufficialmente forme di influenza culturale britannica e riducendo appositamente l’attività missionaria.

Brooke stabilì un regno personale nel corso degli anni imponendo quanto possibile la separazione fra gli inglesi e gli indigeni, scoraggiando matrimoni incrociati pur permettendo, in rispetto alle consuetudini del posto, forme di concubinaggio e vassallaggio. Una dinastia rapidamente accettata dalla popolazione locale costituita in maggioranza proprio dai Daiak che preferivano farsi governare da una dinastia straniera e paternalista che dagli antichi padroni malesi. Per tutta la vita del primo re del Sarawak James Brooke, non ci furono quasi mai problemi di ordine pubblico.

Il dominio personale era ulteriormente rafforzato dal fatto che James Brooke, pur avvalendosi della protezione britannica, impedì quanto possibile l’inserirsi di altri elementi britannici che fossero governativi o della Compagnia giustificando tale politica come modo per tutelare l’autonomia e i diritti degli indigeni. Il regno ebbe problemi solo dai malesi del Borneo che avevano in pratica perso un loro feudo e per anni avevano supportato ed alimentato attività piratesche mentre gli olandesi,antichi padroni dell’area, avevano accettato de facto la conquista britannica di una loro ex-colonia anche se non de iure ( non riconobbero ufficialmente lo Stato indipendente del Sarawak nato fra il  1848 e 1849).

La politica dei Brooke era nettamente di stampo “paternalista” tipico dei regimi autocratici di fine ’800 ( l’assolutismo “illuminato” era una delle colonne portanti dell’ideologia liberale del periodo a riguardo di società considerate arretrate ).Il governo si basava su un contatto continuo fra il popolo e il governo e si deliberavano leggi in seno ad un organo consultivo ( il Consiglio di Stato ) costituito nel 1855 senza alcuna forma di intermediazione politica; i partiti politici  per tutto il regno dei Brooke furono assenti. Il popolo del Sarawak, non omogeneo etnicamente, non sviluppò esigenza di rappresentanza al tempo dei Brooke; in quel periodo le ideologie di matrice europea quali nazionalismo o socialismo erano completamente ignorate anche per la politica del governo di impedire ogni forma di infiltrazione culturale esterna. Al posto di influenza culturale esterna di tipo europeo,  prese piede dagli anni ’50 in poi del secolo decimonono una sempre più radicata presenza di migranti cinesi che in poco tempo furono causa di scontri etnici con la maggioranza malese e i Daiak sostenuti dal governo in più occasioni  ( i cinesi bruciarono nel 1857 la città malese di Kuching ).  Gli indigeni non raggiunsero mai, a parte alcune personalità, i vertici dell’amministrazione e pertanto, a differenza di quanto accadde in India, non si sviluppò un ceto di indigeni istruiti quel tanto da poter creare una classe dirigente pronta per sostituirsi agli europei.

Dagli anni ’60 in poi il regime autocratico di Sarawak iniziò ad espandersi ottenendo concessioni e deleghe dal Sultanato del Brunei corrotto ed indebolito ma qui si evidenza un aspetto insolito e poco conosciuto quale l’urto diplomatico fra un governo di cittadini britannici ( lo Stato del Sarawak ) e l’Inghilterra che,preoccupata dall’autonomia eccessiva del governo Brookiano, iniziò a bloccare l’espansione tutelando ufficialmente il Brunei. In pratica l’Inghilterra in quel perioo sottopose l’area ad una forma di protettorato scoraggiando od espellendo ogni altra nazione europea compreso l’Italia che nel 1870 aveva provato ad istituire una colonia penale nella baia di Gaya. Tuttavia il governo del Sarawak si espanse nonostante l’ostilità britannica ( che difendeva anche gli interessi della Compagnia del Borneo Settentrionale ) acquistando intere province dal Sultanato cronicamente indebitato. Una politica di acquisti accompagnata da sobillazioni nel Borneo per ottenere sempre più vantaggi e benefici senza alcuno scrupolo.

Nel 1887 l’Inghilterra dovette accettare un accordo con il governo di Sarawak concedendogli lo status privilegiato di protettorato riconoscendone la legittimità del suo governo ed impegnandosi a non interferire negli affari interni del paese. Un evento del tutto particolare poichè il potente impero britannico al culmine della sua potenza dovette ammettere una “sconfitta” politica. Nello stesso anno il Sultanato del Brunei  entrò a far parte del Commonwealth ufficialmente ma, a differenza del Sarawak, con minore libertà politica e soggezione da parte del vicino. Il Brunei alla fine del secolo decimonono finì praticamente per essere assorbito dalla potente North Borneo Company che era l’unica seria controparte politica per il Sarawak che aveva frattanto comprato letteralmente mezzo Borneo per espellere i competitori.

Il governo, come si è detto, era dominata dalla dinastia Brooke e Anthony Brooke fu il terzo ad assumere il titolo di Rajah ma fu anche l’ultimo sovrano poichè il Sarawak si sarebbe trovato ben presto sconvolto dalla tempesta della Seconda Guerra Mondiale. Difatti la storia dei Brooke si concluse nel dicembre del ’41 durante la rapida invasione giapponese. Dopo la guerra il Sarawak, da formale protettorato,divenne direttamente colonia britannica il 1 luglio 1946.

La Storia dei Brooke insegna come all’epoca fosse possibile per avventurieri abili e senza scrupoli creare dinastie regnanti come era praticamente la norma nei più convulsi periodi dell’alto medioevo. Quando vi sono stati deboli o divisi, la possibilità che possa emergere un regime paternalista e dispotico resta ancora oggi una possibilità concreta anche nella civilissima Europa oggi più che mai scossa da gravissime crisi sociali ed economiche.

Gabriele Suma

mar 14, 2013 - Notizie    1 Comment

L’Armonia nell’Arte Cinese

 

L’arte spesso è influenzata dagli eventi storici dando forma a sogni ed angosce sia dei potenti che dei comuni esponenti della società ma talvolta l’arte poteva conservarsi nelle sue linee inalterata come stile e linguaggio anche nel corso di interi secoli.

La Storia dell’Arte Cinese ne è un esempio fra i più interessanti per i ciclici avvenimenti di ordine e disordine dal periodo della dinastia Chou al tramonto della dinastia Ming ( 221 a.c – 1911 d.c ). La dinastia Chou fu essenzialmente la prima dinastia reale storicamente documentata della Terra di Mezzo; sotto il regime dei sovrani Chou si diede grande impulso sia alla filosofia che alla manifattura del bronzo che perse progressivamente caratteri di uso religioso per divenire forma di adornamento domestico. I recipienti di bronzo di epoca Chou infatti assunsero forme di animali o umane finemente cesellate e abbellite da incisioni dorate dallo stile elegante. Inoltre si ebbe grandissimo impulso l’industria della giada da sempre particolarmente ricercata dai cinesi per antichissime ragioni religiose e culturali. Difatti la giada era usata per creare una sorta di oggetti discoidali simili ad anelli definiti “pi” ( era così rappresentato il legame con il Cielo e la giada era considerato l’elemento nobile del cosmo ) e in epoca Chou i “pi” assunsero forme ricchissime di dettagli ( spirali e draghi dorati ) dando luogo ad un’ attività artistica libera ed incentivata dalla aristocrazia sia per sfoggio di ricchezza e prestigio sia come risultato di apertura al mondo dei barbari ( gli unni e i tartari ). Il periodo fu caratterizzato poi alla fine per lungo tempo ( 200 anni ) da guerre civili (epoca dei Regni Combattenti 480 a.c – 221 a.c ) e fu anche il periodo più intenso per l’elaborazione del pensiero confuciano e il momento più alto per la produzione artistica al servizio dei signori feudali spesso mecenati ed interessati allo sfarzo. La guerra civile terminò nel 221 a.c con la vittoria di Chin Shih Huang Ti ( Ying Zheng sovrano di Chin ) ma la produzione artistica non subì modifiche radicali conservando le linee guida generali della tendenza di epoca Chou ( tra l’altro l’arte Chou ha rielaborato ma non radicalmente modificato le caratteristiche di un epoca precedente della dinastia Shang ). Bisogna tuttavia considerare che il regime di Shih Huang Ti fu brutale e devastante sul piano culturale ed archeologico poichè egli distrusse le biblioteche dei regni conquistati e uccise molti uomini di pensiero a scopo di ricostruire dal nulla una nuova Cina generando un danno incalcolabile per lo studio di epoche precedenti .Alcune modifiche si verificarono con la fine repentina della dinastia Chin ( la dinastia fondatrice dell’Impero, forte in guerra e fragile in pace ) e l’avvento degli Han per colpo di stato militare di uno dei generali ( Cao Tsu ). La dinastia Han investì molto nel recupero di espressioni artistiche andate distrutte dai Chin e sotto di essa lo stile divenne espressione di una società pacificata con grande desiderio di dimenticare gli affanni delle guerre civili e dei massacri. Inoltre l’arte cinese introdusse sempre più diffusamente gli stilemi artistici ed architettonici del buddismo sopratutto a partire dal I secolo d.c Tuttavia la fase di quiete sociale ebbe fine con l’avvento degli Wei, una dinastia di origine tartara che si sostituì violentemente agli Han. I disordini favorirono il buddismo visto come un rifugio e consolazione dove il sistema,basato su precetti confuciani, era ormai al collasso. Quindi sorsero numerose pagode e templi e santuari buddisti con caratteristiche uniche e un inedita situazione per la civiltà cinese dapprima abituata alla continuità. Il periodo Wei fu anche il tempo in cui si diffuse l’industria della porcellana che nel corso dei secoli conserverà tradizioni gloriose fino all’apogeo dell’epoca Ming. Tuttavia un ricorrente ciclo distruttivo riprese il suo corso e la dinastia Wei fu travolta. Dopo un breve regno dei Sui si imposero i Tang che sono indicati dalla storiografia cinese come generatori di una fase di rinascimento culturale. Difatti i Tang migliorarono forme artistiche precedenti compreso l’arte buddista unendo la continuità formale all’innovazione sopratutto rappresentata dall’uso dell’avorio considerato di valore vicino alla giada.

Furono realizzate statue buddiste con caratteristiche però profondamente cinesi ( culto della forza guerriera nelle figure sacre del buddismo ). Imoltre i Tang furono continuatori dell’arte della porcellana degli Wei raggiungendo livelli di bellezza notevoli. Come è avvenuto in passato anche i Tang diedero inizio ad una nuova forma d’arte e in questo caso i Tang diedero impulso significativo alla pittura dettando regole e stile che a lungo si manterranno, come è tipica della tradizione cinese, nel corso dei secoli riferimenti base di ogni artista. Il periodo successivo difatti è fase di notevole progresso dell’arte pittorica essendo gettate le basi di una vera e propria scuola che propugnava come tema preferito i paesaggi naturali pur essendo giunte a noi opere pregevoli su soggetti umani ( raramente ritratti e più spesso affreschi corali di esponenti aristocratici ). Il tema dei paesaggi è rimasto essenziale riferimento per tutti i secoli successivi e divenne appunto un genere ben definito classificato con il nome di Shan-Shui ( monti – acqua ). Questa forma d’arte ha anche un intenso significato filosofico-religioso, esponendo all’osservatore le immagini naturali come espressione dell’esssenza del Budda ,concetto base della dottrina Zen. L’arte pittorica divenne sempre più rigidamente espressa secondo precise regole formali nel corso del tempo pur mai nel semplice schematismo privo di anima come potevano essere le scuole artistiche occidentali. Difatti gli artisti ritraevano i paesaggi naturali ma con la spontaneità derivate da dirette esperienze personali alla scoperta della Natura e con livelli lirici talvolta sublimi come alcune opere di Ma Yuan e Ma Lin. Tutti gli artisti partecipavano all’Accademia di Thu Hua Yuan che fu per lungo tempo il laboratorio della cultura fra i più importanti del Celeste Impero. La Scuola nei suoi fondamenti non subì sostanziali mutamenti nè regressi neanche con la traumatica invasione mongola che provocò fisicamente la distruzione dell’Accademia. Infatti i mongoli furono conquistati dalla raffinatezza dell’arte cinese ( come i romani in Grecia ) e garantironola continuità pur sempre mai nella piatta imitazione. Difatti gli elementi scolastici venivano sempre rielaborati per offrire nuovi modi di espressione pur sempre nella cornice della tradizione come ad esempio nella paesaggistica naturale. I mongoli permisero il raggiungimento di sempre più alte vette di ricchezza espressiva anche nella scultura e nella ceramica nonostante la predilezione dei dominatori per l’oreficeria8tipica di tutte le culture in origine nomadi). Soltanto con la fine della dominazione mongola iniziò paradossalmente un declino per la pittura nonostante fosse l’impero Ming il periodo di massimo splendore e potenza dal punto di vista politico. Difatti in questa fase i fondamenti d’arte si apprendevano e si adottavano senza alcun impulso di originalità presso la Corte imperiale ma nonostante la crisi ai vertici della società si svilupparono nuovi centri di elaborazione artistica situati alla periferia dell’Impero quale poco a sud di Shanghai nella città di Chekiang. In questa città si fecero sforzi per rinnovare l’arte paesaggistica ispirandosi al passato ma con la sensibilità dei contemporanei. Invece l’impero Ming fu praticamente l’apogeo per la Ceramica con un grande florilegio di colori ( spesso il blu ). Tuttavia la secolare attitudine a rinnovare il passato senza creare un “futuro” artistico diventò il più grosso limite per l’arte cinese che non sviluppò altre “strade” di espressione alla stessa maniera degli europei che invece ruppero progressivamente con le secolari scuole a vantaggio di alternative sviluppate da personali maturazioni psicologiche e ideologiche dei singoli artisti. In Cina ancora gli artisti non “osarono” di proporre nuovi concetti nel declinante Impero Celeste. I cinesi ammirarono le rivoluzioni artistiche in Europa e ben presto sorsero centri di elaborazione dell’arte europea ma la produzione artistica “alternativa” fu sostanzialmente emarginata dalla classe dirigente per molto tempo anche in epoca maoista dove il regime sostanzialmente imitò il realismo socialista di origine sovietica in modo scolastico e senza quella peculiare fase di laboratorio artistico del periodo della NEP prima dell’era stalinista. Soltanto negli ultimi 15-20 anni l’arte cinese sta prendendo strade proprie di elaborazione artistica sopratutto dallo stabilimento 798 divenuto oggi la Mecca dell’arte moderna cinese. Tuttavia la produzione artistica deve ancora fare i conti con la censura politica e con la tendenza da parte del regime a rievocare i fasti del passato imperiale imitando forme d’arte del periodo in nome della “continuità” . La Storia dell’Arte Cinese dimostra come la Cina non ha fatto altro che seguire il detto di Tomasi di Lampedusa “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente” poichè adottare il passato rinnovandolo risponde alla più antica paura dei cinesi quale il Caos che, mentre in Occidente è annuncio di un nuovo Cosmo,in Cina è la Distruzione ritenuta dannosa e foriera di morte, Divisione e Diseguaglianza. Non è un caso appunto che il proposito attuale del PCC ( Partito Comunista Cinese ) sia la difesa della “società armoniosa” che non è altro che,(concetto non dichiarato perchè non accettato dalla Dottrina del Partito ) il concetto confuciano della difesa della Tradizione a scopo di avvicinarsi ad una Età dell’Oro degli antichi imperatori cinesi semileggendari disprezzando ogni forma di contemporaneità ritenuta sempre una corruzione di antiche virtù sociali,politiche e artistiche.

Gabriele Suma

 

gen 21, 2013 - Notizie    3 Comments

Il separatismo europeo

Si parla oggi solo di separatismo per indicare qualunque movimento che abbia lo scopo di separare politicamente da entità geopolitiche più ampie territori,con le popolazioni che vi abitano, per ragioni etniche e storiche e culturali,mentre le ragioni economiche vengono il più spesso sottaciute.

Anche se nei documenti non è più usato il termine irredentismo occorre notare che da parte dei sostenitori si proclama spesso la necessità di lotta contro le più svariate oppressioni,il che desta qualche perplessità visto il generale assetto democratico delle nazioni europee.

E’ anche evidente che, con le motivazioni citate,come parte essenziale del processo di separazione è anche giustificata una qualche forma di pulizia etnica,in mancanza della quale verrebbero a porsi le basi di inevitabili processi in senso contrario.

Al momento attuale appare sussistere l’opinione generale che sia preferibile la collaborazione delle componenti sociali in un contesto più ampio anche pure sovranazionale. Questa esigenza è nata sopratutto dopo la tragedia della seconda guerra mondiale,almeno a parole,nella politica e nelle coscienze della collettività.

Nonostante ciò la carta geografica dell’Europa è costellata di segnali indicanti focolai  di sempre più emergenti istanze separatiste.

Purtroppo il carattere di tali istanze può essere talvolta violento oltre i limiti di una civile competizione sopratutto in situazioni di crisi morale sulla “res publica” che è la ricchezza generata dalla popolazione nel suo insieme.

E’ opportuno a questo punto qualche nota sui movimenti in atto:

I movimenti separatisti in Europa hanno radici storiche diverse e sostenuti da gruppi sociali non sempre uguali ma con una comune preoccupazione di conservare il reddito del ceto più rappresentativo e attivo nell’area interessata, preoccupato di vedersi impoverito a vantaggio degli “altri” della nazione a cui fa parte. I movimenti hanno in comune la tendenza di legarsi ad avvenimenti e processi storici per lo più lontani nel tempo allo scopo di elaborare un insieme di valori il più possibile condivisibili da più persone,anche di differente grado di preparazione e bagaglio culturale .

 L’usanza di rievocare la storia passata con celebrazioni e festivals è nata alla fine del XIX secolo con il fiorire del “romanticismo” letterario sopratutto in Germania che, come l’Italia, ha “inventato” la nazione su una realtà fortemente localistica e campanilistica ( non a caso la Germania è rimasta una “federazione” di solide entità statali e culturali anche nell’alveo dell’impero prussiano e tuttora ancora in vita con la sola parentesi della centralizzazione nazionalsocialista durante la Seconda Guerra Mondiale ).

Per il momento la maggior parte dei movimenti separatisti in Europa non sono dotati di capacità militari necessarie per acquisire il controllo politico dell’area rivendicata. Tuttavia il fenomeno può diventare incisivo se al posto delle armi si lotta con gli strumenti della partecipazione popolare quali i referendum in situazioni di crisi dei meccanismi democratici ordinari del sistema nazionale e quando la stessa classe politica che rappresenta la regione viene sottoposta a critiche da parte di movimenti politici minoritari ed estremisti. I separatismi dell’europa orientale invece sono di natura diversa e sono spesso manipolati da paesi stranieri che intervengono il più delle volte con la forza militare per favorire un’etnia a discapito dell’altra per sfruttare le risorse minerarie o energetiche del territorio conteso oppure per interessi legati a giri di criminalità organizzata.

I baschi,i normanni ( il movimento per l’autonomia della Normandia ) gli scozzesi e i fiamminghi negli ultimi anni possiedono in vario livello di importanza stabili partiti politici parlamentari o extraparlamentari con strutture ben definite e integrate volenti o no nel gioco parlamentare e democratico degli istituti rappresentativi delle nazioni. e i rappresentanti che ne accettano le regole difendono e propugnano i programmi e gli ideali su più canali diversi dal parlamento ai media. Il terrorismo di solito è di scala molto ridotta con scarsa partecipazione popolare anche perchè di solito i programmi separatistici sono sostenuti da gruppi e lobbies di tendenza conservatrice e di alto livello sociale poco propensi a mobilitarsi militarmente e sopratutto timorosi di situazioni rivoluzionarie poco controllabili per i loro interessi. I gruppi terroristici tuttavia sono anche essi frutto di sostegno economico però di una sola parte di gruppi interessati a soluzioni radicali di indipendenza con propositi ideologici spesso di sinistra estrema oppure a favore di ambiziose oligarchie all’ombra di quelle più forti o più antiche che sostengono invece programmi moderati. Talvolta il separatismo può anche essere sostenuto dalla criminalità organizzata per sostituirsi anche formalmente oltre che de facto allo Stato sulla gestione del territorio e l’esempio più interessante è quello tentato dalla mafia in Sicilia nell’immediato dopoguerra.

Invece i separatismi dell’europa orientale sono praticamente tutti provocati o alimentati dai giochi geopolitici fra le potenze e oltre al noto e discusso caso del Kosovo , da anni senza soluzione di continuità,esiste la questione della Bessarabia che coinvolge pesantemente la Russia interessata,per ragioni politiche più che economiche, a “russificare” il territorio già prima annesso con le minacce dall’URSS staliniana nel 1939. Come il Kosovo è controllato dall’etnia favorita dalla presenza di truppe straniere europee, anche quest’area è dominata con altrettanto brutali metodi dall’etnia russofila a discapito del resto della popolazione tenuta in un clima di pulizia etnica a tutti i livelli. La situazione è purtroppo “normale” per il mancato sviluppo della società civile in aree dell’europa orientale dove la democrazia di tipo liberale moderno non c’è mai esistita nemmeno in tempi pre-sovietici ( da ricordare che la stessa Polonia fu a lungo una forma di dittatura semi-militare prima dell’invasione nazi-sovietica ).

I separatismi si legano ad un passato spesso di natura violentemente religiosa ( la resistenza anti-turca, i dissidi fra ortodossi e cattolici ) e propongono come unica soluzione l’annientamento fisico oltre che culturale di ogni altra etnia presente sul territorio considerando la lotta una questione di vita o di morte dell’etnia rivendicatrice. Chiaramente i separatisti dell’europa dell’est sono di formazione più paramilitare che politica e i “partiti” sono piuttosto dei veri e propri eserciti privati legati e finanziati da organizzazioni criminali che in cambio di armi e denaro sfruttano le risorse del territorio conquistato per vari tipi di mercati di scala anche più vasta.

Basterebbe leggere il bellissimo “il ponte sulla Drina” di Andric per avere almeno una risposta ai quesiti che le tragedie di cui sopra ci pongono.

Alcune considerazioni sorgono spontanee.

Al momento attuale non è il cuore a generare le motivazioni per le lotte ma la naturale tendenza all’avidità che spinge gli uomini a realizzare disegni personali.

Con pressocchè assoluta costanza ogni movimento separatista tende a circoscrivere benefici ad un ambito locale,bandendo ogni sentimento di solidarietà umana nazionale ed è chiaro che qualunque crisi economica non può far altro che accentuare il fenomeno.

Anche dove alle base delle idee conclamate vi è un antico e spesso giustificato risentimento,è ben chiaro che ogni possibilità di pacificazione è annullata da individuali ambizioni politiche e da interessi se possibile ancora più loschi(basti pensare a come qualunque interesse malavitoso può sguazzare in una turbolenza pretestuosamente mantenuta ).

Vincenzo Suma.
Gabriele Suma.

gen 7, 2013 - Notizie    10 Comments

La Puglia preromana

Nel V e IV secolo avanti Cristo il mezzogiorno era teatro sia di grandi sconvolgimenti politici e sociali per la Magna Grecia sia di grandi movimenti di numerose componenti etniche dell’Italia pre-romana. La Puglia in particolare era interessata da migrazioni come quella dei sanniti del Molise che avevano invaso la Campania provocando la crisi degli antichi equilibri fra etruschi e greci che dominavano la regione. Le popolazioni dell’area denominata in epoche recenti “Puglia”  grosso modo definiti  Iapigi ( oppure Apuli ) presentavano legami etnici comuni ai confini del mondo etrusco e degli Appennini sannitici. Talvolta erano  legati da alleanze militari rivolte a contrastare sia i greci allora principali nemici. Il gruppo degli Apuli più combattivo era quello dei Dauni. Essi erano un gruppo di tribù dedite alla pastorizia e spesso ad incursioni nei territori limitrofi e stabilmente stanziati nel territorio dell’attuale provincia di Foggia.  Questa confederazione di comunità sconfisse più volte gli opliti sia di Taranto che di Reggio e per tutto il V secolo assunse anche importanza nelle relazioni diplomatiche su vasta scala in tutto il mezzogiorno prima che emergesse il vasto sistema militare e culturale dei Messapi. La situazione dovette mutare radicalmente nel secolo successivo quando l’intero sistema di equilibri del Mezzogiorno fu sconvolto dall’intraprendenza di Siracusa che era riuscita a piegare Reggio e la Calabria per poi collassare in modo altrettanto brusco per lotte politiche interne. La fine del breve impero siracusano  comportò lo sconvolgimento del tessuto sociale e culturale di tutta l’area meridionale della penisola a tutto danno proprio delle città greche. I siracusani avevano assunto numerosi mercenari provenienti sopratutto dalla Lucania nelle varie guerre imperiali e con la fine del potere di Dioniso ( tiranno di Siracusa ) i mercenari appoggiarono i Messapi che raggiunsero l’apice dell’espansione scompaginando profondamente l’assetto politico promosso dalla Poleis di Taranto nella regione. La situazione cambiò quando la confederazione messapica crollò nelle guerre proprio contro i Dauni e nel maggiore momento di debolezza anche ad opera della riscossa greca per mezzo degli Epiroti guidati da Alessandro il Molosso ( parente del Magno ) che ripristinò la potenza greca negli antichi domini del Mezzogiorno. L’ingresso degli epiroti nello scenario  comportò però ugualmente il declino politico inesorabile  della Magna Grecia non più intesa come una realtà autonoma. Difatti sorsero nuovi propositi egemonici da parte della Grecia ( Epiro e Sparta ) e della Sicilia ( la rediviva Siracusa ).  Inoltre alla fine del tormentato IV secolo anche le componenti etniche della Puglia subirono il declino a causa di importanti avvenimenti occorsi in Italia centrale dove Roma aveva da poco sottomesso i latini e i campani. L’avvento della potenza militare dell’Urbe era difatti accompagnato da interferenze in Puglia dove i romani strinsero accordi militari con i Dauni contro i sanniti e lucani mentre la confederazione messapica stava uscendo  dalla scena politica nella regione.  Mentre i Dauni stavano inesorabilmente passando sotto influenza romana, altre comunità venivano utilizzate dai siracusani guidati dall’ambizioso Agatocle che aveva da poco sottomesso la Sicilia ed era propenso ad estendere il suo impero nel resto dell’area portando seco etnie straniere quali galli,campani e liguri. La Puglia era ormai “irriconoscibile” dopo l’anno chiave della storia italica quale il 338 A.C ( l’anno della sconfitta della lega campana contro Roma ) poichè si assiste ormai allla infiltrazione sempre più forte di componenti culturali provenienti sia da Roma che dalla Sicilia a spese dell’identità degli apuli in generale  sia come alleati che come formalmente indipendenti. Infatti i ritrovamenti archeologici nella regione permettono di ipotizzare intensi legami commerciali e culturali sopratutto con l’Urbe che vendeva ai suoi alleati anche alcuni equipaggiamenti militari che erano perlopiù utilizzati come “status symbol” degli esponenti più importanti sempre più attratti nell’orbita di influenza capitolina anche senza alcun evento bellico. Il più chiaro segno di dominazione romana era inoltre la fondazione della colonia di Lucera nel 315 a.c pur essendo i Dauni alleati con notevole autonomia all’interno dell’articolato sistema diplomatico che i romani avevano stabilitito in mezza penisola italiana. I romani avevano diviso i sanniti fra loro guadagnando rapporti di amicizia con rami sannitici che controllavano i passaggi fra il territorio romano e la Puglia sancendo de facto l’estensione dell’influenza tiberina in Italia Meridionale. La crescente potenza romana fece sì che ancora la Puglia diventasse scenario di importanti questioni geopolitiche quando proprio come forma di contenimento reciproco avvenne il primo trattato fra Roma e Cartagine del 306 a.c. Il trattato difatti riconosceva l’influenza romana sulla regione tranne la città di Taranto ( già allora importante area strategica sul Mediterraneo ) che restava indipendente pur “tutelata” ormai sia da Cartagine sia dall’Epiro mentre proprio per le guerre senza fine con i punici Siracusa dalla morte di Agatocle aveva perso sempre più controllo dell’area. La storia della Puglia come regione a se stante con le sue etnie e dinamiche interne finisce in modo chiaro e definitivo con un altra grande disfatta militare  degli italici da parte di Roma nel 295 a.c ( la guerra romano-sannitica finale che coinvolse non solo sabini ma anche quello che restava degli etruschi e degli umbri e pure i galli ). Infatti i romani sempre più potenti istituirono la colonia di Venosa come base di controllo delle frontiere terrestri della Puglia e di sottomissione dei lucani. In poco tempo l’intera Puglia fece parte della “federazione” romana tranne Taranto che ancora godeva dell’interessata protezione di potenze straniere quali Cartagine ed Epiro preoccupate dell’espansionismo romano. Taranto tuttavia, dopo l’effimera avventura militare di Pirro re dell’Epiro, cadde anche essa nell’influenza romana ( sia ben chiaro, non ci furono molte annessioni dirette ma piuttosto varie forme di sottomissione indiretta ) nel 272 a.c.  La storia della Puglia con protagonisti gli italici come etnie pre-romanizzate era da tempo finita ma in termini culturali continuerà nell’alveo della cultura romana conservando le lingue in certi casi e anche aspetti culturali e sociali che i romani pemettevano di solito  in cambio di fedeltà. Tuttavia le comunità dei Dauni e altre etnie pugliesi persero ogni forma di coesione e così numerosi siti stanziali scomparvero o finirono assorbiti da diverse realtà sociali dai romani  importate. L’identità, tramandata  come segno di distinzione continuo’ a sussistere ma in assenza di autentiche libertà, come avverra’  anche per tutti gli altri casi nella Storia dell’Uomo quando ,con il venir meno di libertà politiche,sussisteranno,permesse, libertà che serviranno a dare l’ illusione che si può fare a meno di essere indipendenti.

GABRIELE SUMA

dic 8, 2012 - Notizie    6 Comments

Il Socialismo di Cuzco

L’Impero Inca si basava per la sua soppravivenza sulla pastorizia e sulla agricoltura. Le condizioni climatiche sulle Ande erano estreme e determinarono un evoluzione sociale particolare che ricorda per certi aspetti una forma di “socialismo” ( detto “primitivo da Marx che ne aveva pure vagamente accennato ). La ristrettezza demografica dovuta all’alta mortalità infantile ( aumentata per scarsità di ossigeno in alte quote ) obbligava la comunità a mettere in comune le attività e la coppia famigliare ( era una società comunque rigidamente monogamica ) era dunque assistita attivamente da parenti di ogni grado. L’assistenza reciproca fra nuclei famigliari diede origine appunto a comunità “collettive” dette Ayllu ( in lingua Quechua ) dal nome dato a coloro che avevano creato queste comunità. Erano il simbolo e punto di riferimento da cui le generazioni successive traevano valori e attitudini comuni. Dai mitici ayllu derivavano la prima coppia mitica detta metà di consaguinei che a loro volta secondo una gradualità rigidamente strutturata si dividevano in duali “scissioni” ( tema caro dei miti antichi la geometrica sequenza di creazione delle comunità ). I nuclei più prestigiosi erano quelli ritenuti più vicini in linea di discendenza ai mitici fondatori e vantavano il loro lignaggio con i corpi mummificati di lontani antenati ( conservati in cimiteri comunitari detti Ilacta ). Il nome di queste scissioni poi era stato dato alla struttura dei quartieri abitativi. La capitale,Cuzco, era infatti divisa in due grandi quartieri detti metà appunto e le famiglie più altolocate erano situate all’interno di sotto-aree dei metà dette Suyu. Le donne conservavano la propria “linea di sangue” ( propria genealogia, quindi non adottavano il cognome del marito ) e dividevano equamente diritti e doveri pari all’uomo in riferimento ai loro miti stessi basati fondamentalmente sulla dualità di ogni aspetto. Gli individui si aiutavano a vicenda in forza dell’obbligo religioso e sociale dell’Mit’a che indicava l’obbligo di corrispondere, della stesso valore ,l’aiuto offerto da un altro. In questo modo numerose attività anche edilizie si realizzavano se tali progetti erano in funzione di tutta la comunità. Le donne ( ma anche gli uomini ) dedicavano molto tempo alla produzione della stoffa non solo in funzione domestica ma anche come “conio monetario” poichè in assenza della moneta si usavano, al suo posto ,appunto i tessuti che assumevano anche grande valore per la conservazione della memoria storica della comunità. Le attività in origine venivano regolamentate affidando ad ogni nucleo famigliare una precisa funzione di utilità sociale che però, a differenza di molte altre società antiche, nom era assolutamente  ereditaria ma piuttosto “a rotazione”. I ruoli sociali venivano presi in grande considerazione sopratutto quelli di carattere religioso e gli esercenti di quel determinato momento, assumevano come simbolo del potere acquisito, “scettri” detti vara. La situazione cambiò radicalmente negli ultimi anni dell’impero quando la gerarchia divenne ereditaria a beneficio di una vera e propria classe costituita da signori denominati Kuraka che in pratica assumevano ruolo di intermediari fra gli dei e i fedeli. I Kuraka pur essendo dei privilegiati erano comunque tenuti a rispettare l’usanza met’a sotto forma di doni generosi per la comunità nelle feste religiose. I Kuraka si occupavano anche di effettuare censimenti e registrare i sudditi sottoposti a precisi programmi fiscali ( basati, in assenza di moneta ,su beni in natura,utili per la capitale ). Il Mais era un bene fondamentale e veniva raccolto tramite i tributi e conservato poi in grandi depositi dalle varie forme detti qollqa assolutamente essenziali per affrontare periodi di siccità. Il differente aspetto dei contenitori corrispondeva ad un differente tipo di merce conservata: tondi per il mais e quadrati per le patare. Gli Inca estendevano il dominio e lo conservavano inoltre con lo stabilire un efficiente sistema di vie di comunicazione sottoposta alle cura delle comunità locali e persorso continuamente da messageri appiedati ( non c’erano cavalli ).  La produzione agricola era la maggiore attività industriale e impegnava gran parte della popolazione e l risorse da tutto l’Impero. L’importanza era ancora più accentuata per la scarsità di terreni coltivabili e per complesse tecniche di irrigazione che determinavano l’accrescere dell’influenza di tecnici specializzati con propri privilegi e onori. Altre forme di industria erano ritenute meno prestigiose per i cittadini inca ma l’impero utilizzò molto artigiani,scultori e fabbri fra i prigionieri di guerra per mansioni non ritenute onorevoli dalla popolazione dominatrice. L’ideologia del Mit’a permetteva buone condizioni di vita a questi “schiavi” che potevano ottenere,in cambio delle loro attività, il pari valore e dunque cibo,vestiario e comodità. La gerarchia però si stabiliva in modo chiaro durante le feste quando era rigidamente stabilita la posizione dei posti nel rito e la distribuzione della birra e anche precisi codici di linguaggio a seconda del proprio grado sociale. La birra veniva servita in recipienti che avevano forme diverse: dalle semplici ciotole di semplici lavoratori a coppe preziose della classe dirigente imperiale. I recipienti usati nelle feste poi continuavano ad indicare il prestigio quando essi venivano lasciati nelle tombe insieme ad altri oggetti appartenenti al defunto.

A parte queste forme di riverenza la società inca incoraggiava la messa in comune degli spazi privati delle abitazioni evitando eccesso di promiscuità tipica dei quartieri popolari dell’occidente europeo con benefici dal punto di vista igienico. Infatti non esistevano forme verticali di raggruppamento abitativo con tutti i rischi di crolli e incendi ma piuttosto le case di famiglia erano riunite in un area delimitata da un muro in pietra e il complesso abitativo era chiamato Kancha. Ogni gruppo di case ( costituite spesso da un unica stanza spaziosa ) si aprivano su un cortile che a sua volta,delimitato da mura,si apriva sulla strada cittadina.

Gli Inca consideravano la propria capitale l’origine dell’universo e tale concetto era sottolineato dalla grande piazza centrale usata per riti sacri detta Huacaypata da cui si diramavano quattro grandi strade che simboleggiavano l’estensione dell’universo. Al centro della piazza vi era l’Unsu costituito da una colonna per osservazioni astronomiche e dal Trono per l’Imperatore considerato alta figura sacra e il più alto intermediario con il cosmo. La birra veniva distribuita da un deposito sacro alla base del complesso per le grandi festività. Dal centro sacro si stabilivano, tramite linee dette ceques, i confini dei quartieri e anche aree non urbanizzate con funzione di determinare cicli produttivi e usufrutto delle risorse secondo precisi criteri religiosi. In questo modo si garantiva la continuità razionale della divisione del lavoro a tutta la società Inca. La distribuzione delle linee divideva in due la città in parte alta e in parte bassa e le due parti vivevano autonomamente e nello stesso tempo insieme ,aiutati dai criteri sacri del Centro della città ,che alla fin fine era davvero una sorta di “città santa” dell’Impero. L’intera città considerava la risorsa più sacra i fiumi sotterranei sotto la città.Nel punto di confluenza era stato eretto il tempio di Coricancha che aveva funzione anche di pantheon per raccogliere le divinità dei popoli sottomessi e vetrina del maestoso potere del popolo Inca. Un aspetto particolare della città è che essa,secondo alcune teorie, dovrebbe rappresentare un puma ( animale sacro agli Inca ) visto dall’alto secondo la distribuzione dei quartieri come è stato appurato dagli studi sul complesso di Sacsahuaman  risultante essere un complesso religioso con funzione di ospitare solo la Corte Imperiale e l’arsenale militare e gli strumenti dei riti religiosi di carattere nazionale.

La società Inca decadde con la conquista spagnola, ma ancora oggi la lingua è tuttora parlata e ancora oggi si tramandano le antiche glorie in tessuti pregiati noti anche per i colori prodotti esclusivamente in loco e in pieno rispetto della tradizione Mit’a fra i discedenti che siano meticci o isolati nelle inospitali lande andine. Si può disruggere un impero,una nazione,una civiltà fino alle sue fondamenta ma finchè la lingua è parlata la fine è solo rimandata o perfino sospesa. Dovremmo considerare ciò quando si ritiene che le lingue nazionali sembrano essere destinate a scomparire in un futuro non troppo lontano.

Gabriele Suma

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